Scorie nucleari, dove sarà il deposito italiano?
Quando le persone mi chiedono dove sono nato e rispondo <<a Latina>>, il loro sguardo a volte sembra perdersi nel vuoto, come nel tentativo di cercare di ricordarsi dove si trova questo piccolo capoluogo di provincia poco a sud della Capitale. Ma ci sono una serie di eccellenze che caratterizzano quella provincia, che ormai si sta sempre più trasformando nella periferia di Roma. L’impresa unica della bonifica della Pianura Pontina, l’architettura razionalista delle città di fondazione, una stagione industriale che ha avuto una crescita senza confronti grazie anche ai contributi della Cassa del Mezzogiorno, l’istituzione del Parco Nazionale del Circeo che con i laghi costieri e la duna appartiene ormai ad una delle porzioni di territorio più preziose dell’intero paese. Per noi che siamo “green” ed ecologisti, ma non solo per noi, questo si chiama CAPITALE NATURALE perché offre una serie di servizi ecosistemici di impareggiabile valore che crediamo fortemente rappresentino un opportunità di crescita economica ancora da sfruttare. Ma c’è anche un’altra peculiarità nel territorio pontino: a Latina si trova la prima centrale nucleare Italiana che ha prodotto energia. Non è l’unica. Ci sono anche quella del Garigliano, Caorso, Trino, più una altra decina tra centri di sperimentazione e ricerca.
L’Italia ha abbandonato il nucleare attraverso il referendum del 1987 e, più di recente, quello del 2011, ma dopo circa 30 anni dallo spegnimento dell’ultima centrale ci troviamo ancora con le scorie sparse sul nostro territorio e a volte, ci dicono gli esperti del settore, in “precarie condizioni di sicurezza”. Quando penso al caso di Statte, nel Tarantino, dove dal 1995 circa 16.000 fusti di rifiuti speciali dei quali 3000 pieni di rifiuti radioattivi sono stati abbandonati in un capannone, penso che il termine “precarie condizioni di sicurezza” sia un eufemismo. Non tutti i rifiuti si trovano nella condizione critica di Statte, ma certo c’è bisogno di un deposito nazionale, come in tutte gli altri paesi, per poter mettere in sicurezza quanto ereditato dalla passata strategia energetica e smaltire i rifiuti radioattivi generati quasi quotidianamente in diversi campi di utilizzo. Scintigrafie, lastre, terapie e trattamenti medici, saldature, attività di ricerca scientifica sono solo alcune delle attività umane basate sull’utilizzo di isotopi che utilizzano tecnologie e processi che generano rifiuti radioattivi con emivita (periodo necessario per ridurre l’attività degli atomi) più breve rispetto a quella, per noi più difficile da accettare, causata dai reattori o dagli armamenti nucleari. Per questi ultimi “rifiuti” infatti, anziché poche decine o centinaia di anni, l’emivita sale da migliaia a milioni di anni.
Per questo motivo, si usa distinguere i rifiuti a bassa e media attività e basso-medio tempo di decadimento (Rifiuti di Seconda Categoria), dai rifiuti ad alta attività e/o a lungo tempo di decadimento (Rifiuti di Terza Categoria) che necessitano fino a centinaia di migliaia di anni per raggiungere livelli di radioattività paragonabili al fondo naturale. I primi vengono smaltiti in depositi superficiali o a bassa profondità; i secondi vengono smaltiti in formazioni geologiche a grande profondità.
Entro il 2025 tutti i paesi della comunità europea dovranno dotarsi di uno o più depositi ed il nostro paese, entro questo anno, indicherà i siti idonei per realizzare centri di trattamento e stoccaggio, siano essi temporanei e/o permanenti. Il volume in gioco è di quasi 100.000 metri cubi. In un articolo di Roberto Giovannini, pubblicato su La Stampa nel 2014 si leggeva che 27.000 metri cubi di rifiuti radioattivi sono sparsi nel “Belpaese”. Oltre 25.000 a bassa e media radioattività e quasi 2.000 ad alta radioattività. Altre stime, più recenti, indicano il volume complessivo dei rifiuti ad alta attività in almeno 15.000 m3.
La SOGIN, società pubblica nata nel 1999 da una costola dell’ENEL e che fino ad oggi ha svolto attività per quasi 3 miliardi di euro, stima che per traghettare l’Italia verso l’uscita dal nucleare saranno necessari altri 6,5 miliardi di euro. Di questi, sempre più fonti stimano che 1,5 miliardi saranno investiti in un “Parco Tecnologico”. Ma sono soldi che dovranno pagare gli Italiani in bolletta? Una parte di queste somme potranno essere risparmiate attraverso altre fonti di finanziamento? Non sarebbe più efficace condividere il problema optando, ad esempio, per un deposito comunitario? Ha senso dotare il nostro paese di un deposito sotterraneo, quando ve ne sono già altri in esercizio in altri paesi europei?
Quello che è certo è che da quando è sfumata la possibilità di realizzare un deposito nazionale sotterraneo a Scansano Ionico, per effetto della forte opposizione della comunità locale, è proseguita l’attenta valutazione di siti (sia sotterranei che di superficie) alternativi e potenzialmente idonei.
La lista uscirà tra poco tempo e scaturisce da una analisi, durata anni, che ha coinvolto diversi attori istituzionali: La Presidenza del Consiglio dei Ministri, il Ministero dello Sviluppo Economico, il ministero dell’Ambiente e l’ISPRA (Istituto Superiore per la Protezione dell’Ambiente e del Territorio) solo per citarne alcuni. I criteri fino ad oggi seguiti sono di tipo tecnico. Si escluderanno, ad esempio, le aree troppo vicino alla costa, ai corsi d’acqua, piuttosto che zone esposte ad una soglia di sismicità troppo elevata che potrebbero mettere in crisi la capacità degli edifici di resistere alle scosse di terremoto più violente.
Staremo a vedere quali saranno le prossime notizie, con la consapevolezza che questa è una partita “green” perché ci impegnerà nell’affrontare il problema dal punto di vista politico, ma anche dal punto di vista sociale, tecnico ed economico. Solo così potremmo essere certi di aver contribuito in modo costruttivo alla corretta informazione della popolazione, alla crescita nelle coscienze degli italiani che ancora non riconoscono questo dei rifiuti radioattivi come un problema da affrontare con urgenza.
La strada da seguire per superare questa difficoltà (economica in primis) potrebbe essere ricercata nella capacità che avremo di saper analizzare i fatti, comprendendo le ragioni alla base delle scelte che dovranno essere prese, senza lasciarsi prendere dalla sindrome NIMBY e facendo attenzione a verificare che gli investimenti siano fatti perché realmente necessari e secondo logiche di trasparenza e risparmio. In ultimo, non certo in ordine di importanza, andrebbe considerato il valore ecosistemico e produttivo dei siti (sia di superficie che sotterranei) scelti per ospitare questa montagna di materiale, e bisognerà appurare che risorse sufficienti vengano destinate alla realizzazione di tutte le necessarie misure di compensazione ed adeguamento infrastrutturale del territorio circostante (viabilità, sicurezza, monitoraggio ambientale ed epidemiologico, etc.).
Per ora l’unica cosa che possiamo fare è continuare a raccogliere informazioni per comprendere meglio quanto sia il CAPITALE NUCLEARE che abbiamo ereditato e che contribuiamo tutti quotidianamente ad accrescere.
Sergio Cappucci
L’autore del post, Sergio Cappucci, è ricercatore presso l’Enea.
Dopo il conseguimento della Laura in Scienze della Terra presso l’Università di Roma La Sapienza e del PhD presso l’Università di Southampton (UK), è stato ricercatore presso ISPRA dal 2003 al 2008 e poi in ENEA, dove tutt’ora si occupa di sostenibilità economica di interventi di bonifica, messa in sicurezza e riqualificazione ambientale.
Ha prestato servizio in qualità di esperto presso la Direzione Qualità della Vita del Ministero dell’Ambiente dal 2004-2008.
E’ stato Professore a contratto presso l’Università di Sassari dal 2003 al 2009 e poi presso la “Sapienza” Università di Roma, dove dal 2011 insegna al Master in Caratterizzazione e Tecnologie per la Bonifica dei Siti Inquinati.