Pd comitato elettorale? Non è una parolaccia
Articolo di Robereto Della Seta e Francesco Ferrante su Huffington Post –
Che c’è di male se il Pd di Renzi diventa un grande e potente comitato elettorale? Se la legittimazione dei suoi comportamenti, delle sue politiche, anche delle scelte su chi deve rappresentarlo nelle liste elettorali e nei governi non arriva da qualche centinaia di migliaia di iscritti, di ‘soci della ditta’, ma da milioni di persone che quando si vota dicono che sì, quei comportamenti e quelle politiche e quelle scelte li convincono? Secondo noi non c’è niente di male.
Anzi siccome in politica il realismo è una virtù, questo è un bene, è la presa d’atto che nel tempo presente, in Italia come in tutta Europa, la partecipazione civile sempre di meno sceglie per esprimersi i partiti, e sempre di più si affida a luoghi di condivisione meno ‘generalisti’ e più liquidi: associazioni, comitati e gruppi di azione ‘single issue‘, la cui ragione sociale s’identifica con temi specifici come difendere l’ambiente o battersi per la legalità, o con obiettivi ancora più circoscritti come promuovere e vincere un referendum o ottenere l’apertura di un parco o la chiusura di una discarica. Peraltro questa perdita di centralità sociale riguarda insieme ai partiti anche i sindacati: perché malgrado i drammi incombenti legati a disoccupazione e povertà, sempre di meno le persone basano il proprio ‘essere sociale’ prevalentemente sul lavoro.
Insomma, non è che i partiti, e i sindacati, perdano senso perché declina la cittadinanza attiva, perché le persone sentono meno il bisogno di ritrovarsi in comunità di valori e di obiettivi; accade piuttosto che in particolare i giovani si riconoscano in identità multiple e continuamente mutevoli: “La stessa persona – scrive Amartya Sen – può essere senza la minima contraddizione (…) cristiana, progressista, donna, vegetariana, maratoneta, storica, insegnante, romanziera, femminista, eterosessuale, sostenitrice dei diritti dei gay e delle lesbiche, amante del teatro, militante ambientalista, appassionata di tennis, musicista jazz”. Quasi ad ognuna di queste appartenenze può corrispondere la partecipazione a qualche forma di cittadinanza attiva, di impegno ‘politico’; ma ben difficilmente la loro ‘somma’ suggerisce di collegarsi in via permanente a un partito. Poi quando si vota, la nostra ‘donna-esempio’ deciderà, transitoriamente e senza affidamenti generali, quale partito assomiglia di più all’insieme delle sue identità multiple e dei bisogni, delle aspirazioni a esse collegate. Punto.
Oggi più che mai la qualità di una democrazia, il ‘tasso valoriale’ di una società, non si misurano dal numero di iscritti ai partiti ma da ben altro: per esempio da come funzionano i criteri di selezione delle classi dirigenti, dal grado di attenzione e consapevolezza dell’opinione pubblica, dalla trasparenza dei meccanismi di formazione dl consenso, dal peso della corruzione e delle infiltrazioni criminali nella politica. Tutte ferite da tempo aperte e dolenti sul corpo dell’Italia, rispetto alle quali non pare proprio che i partiti di vecchio modello, Pd compreso, abbiano svolto una funzione terapeutica…
Per tutto questo, lo ripetiamo, a noi sembra un bene se il Pd di Renzi smette di essere una ditta e diventa un bel ‘comitatone elettorale’. Semmai tale passaggio rischia di creare un vistoso cortocircuito tra il Renzi segretario Pd e l’altro Renzi presidente del consiglio. Mentre il primo vuole buttare al macero il modello di partito ereditato dagliex-Pci, il secondo almeno per un aspetto sembra l’erede più fedele della vecchia nomenclatura. Come un qualunque reduce dal Pci, di quelli formati alla scuola di partito delle Frattocchie, Renzi rifiuta e detesta l’autonomia e il protagonismo politico dei corpi intermedi. Tra lui e il ‘popolo’ non vuole intermediari: chi rappresenta e organizza interessi e bisogni più o meno settoriali, più o meno diffusi, o si accontenta di un ruolo da notaio oppure se cerca di mediare, di ‘mettersi di traverso’, viene iscritto d’ufficio alla categoria dei ‘gufi’, dei nemici del Grande Cambiamento di cui lo stesso Renzi si considera il supremo sacerdote.
Ora, detto che questa idea renziana trova un pretesto formidabile e un alimento di indiscutibile popolarità nella pessima e giustificatissima fama di cui godono in Italia sindacati, Confindustria e in generale le organizzazioni di rappresentanza economico-sociale – trasformatisi progressivamente in ‘caste’ non meno chiuse e autoreferenziali della casta dei politici – però un conto è denunciare le degenerazioni delle rappresentanze sindacali e industriali, un altro è negare dignità e legittimità ai corpi intermedi, cioè alle molteplici articolazioni attraverso le quali gli interessi, i bisogni, i valori presenti nella società si manifestano sulla scena pubblica.
Una democrazia, tanto più una democrazia in cui i partiti sempre di più fanno la parte di comitati elettorali, non può vivere di sola delega elettorale: ha bisogno di sussidiarietà, ha bisogno che la politica dia pieno riconoscimento alle diverse forme di ‘cittadinanza attiva’; per questo sono indispensabili i corpi intermedi. Accade così in tutte le democrazie avanzate, dove i corpi intermedi non solo svolgono rilevanti funzioni pubbliche – dalla sanità all’assistenza sociale, dall’ambiente ai beni culturali – ma in piena autonomia danno sostegno ai leader, ai partiti, agli schieramenti che ne sposano gli obiettivi. In Italia, dove i corpi intermedi hanno una storia gloriosa lunga parecchi secoli, da decenni gli unici corpi intermedi riconosciuti e legittimati sono stati quelli para-istituzionali direttamente collegati all”establishment’: sindacati, rappresentanze imprenditoriali, grandi associazioni cattoliche.
Renzi, questa per ora l’impressione, anziché spendersi per allargare l’ascolto e il dialogo anche ai soggetti più autonomi e informali – associazionismo, volontariato, le stesse lobby economiche se dichiarate e trasparenti – sembra tentato dall’idea di descrivere ogni corpo intermedio come corporazione egoista, con lui e soltanto lui quale interprete autentico dell’interesse generale. Ecco, in questo il nostro premier assomiglia più a Togliatti che ad Obama: e non è un bel vedere.