Ilva di Taranto. Quando in fondo al tunnel c’è solo il buio
Articolo di Roberto Della Seta e Francesco Ferrante su Huffington Post
Da decenni l’Ilva di Taranto è il massimo simbolo di un modello di industria – lo stesso del Porto Marghera o di Bagnoli – fondato sul disprezzo e la violazione sistematici di ogni garanzia e protezione a difesa dell’ambiente, della sicurezza dei lavoratori, della salute dei cittadini. Da anni è il terreno di sperimentazione di leggi che tale disprezzo elevano a norma, a principio giuridico, affermando l’idea che l’interesse di un’impresa debba venire prima della sicurezza del lavoro e della tutela della salute pubblica. Ora che l’Ilva, sottratta al controllo dei vecchi proprietari (la famiglia Riva) e commissariata dal 2013 dopo che la magistratura ha finalmente messo il dito nella piaga, sta per ritornare ai privati, la sensazione è che dopo questo tunnel infinito non vi sia luce ma un altro, forse ancora più profondo, buio. Si voleva restituire dignità sociale e salute alla città di Taranto e al tempo stesso salvare i posti di lavoro dell’Ilva?
Intenzione lodevole, ma per percorrere questa via molto stretta e molto impervia occorreva, occorrerebbe fissare e rispettare alcuni persino banali criteri: nessuno sconto sulla messa in sicurezza ambientale degli impianti, massima trasparenza nelle procedure per scegliere l’acquirente privato dell’azienda. Tutti gli ultimi governi – Monti, Letta, Renzi – si sono mossi in direzione opposta. Prima con una lunga successione di decreti legati da uno stesso filo conduttore: negare o quanto meno “relativizzare” il principio costituzionale (
articolo 41) per cui “l’iniziativa economica non può svolgersi se reca danni a libertà, sicurezza e dignità umana”.
L’ultima tappa di questo “lavoro sporco” porta la firma del governo Renzi, che con due decreti emanati in pochi mesi stabilì che l’Ilva può produrre
senza bisogno di rispettare per intero le prescrizioni del Ministero dell’Ambiente per il risanamento e la bonifica ambientali del sito, che il commissario Ilva gode di una sorta di “guarentigia” che lo rende immune da eventuali provvedimenti giudiziari, che nel caso in cui la magistratura disponga il sequestro parziale o totale dello stabilimento ravvisando situazioni di grave pericolo per la sicurezza dei lavoratori, l’attività produttiva può proseguire ugualmente. Adesso questa lunga storia di illegalità tollerata o mascherata grazie a norme “ad aziendam” conosce un ennesimo capitolo oscuro: la procedura del tutto opaca che porterà alla scelta del nuovo padrone privato dell’Ilva.
Con ogni probabilità, tra le due offerte presentate al governo verrà preferita quella della cordata guidata dal gruppo indiano Mittal e di cui fanno parte Marcegaglia e Intesa San Paolo, ma il punto vero è la totale mancanza di trasparenza delle ragioni di questa scelta e del progetto industriale di chi guiderà lo stabilimento.
Come ha sottolineato Legambiente, non si conoscono i piani ambientali delle due cordate interessate all’acquisto, né i rispettivi piani industriali. Tutto ciò che si sa sono voci più o meno incontrollate, e decisamente preoccupanti: da una parte filtrano ipotesi di tagli radicali all’occupazione, dall’altra parrebbe, per esempio, che per il gruppo Mittal la scadenza per l’attuazione delle prescrizioni previste dall’
Autorizzazione Integrata Ambientale, decise cinque anni fa e indispensabili perché l’Ilva smetta di essere una fabbrica di veleni e di morte, sarebbe stata fissata dai commissari e dal governo al 2023.
Un’autentica follia: vorrebbe dire che ancora per sei anni l’Ilva continuerà a devastare l’aria, la terra, il mare, la salute di Taranto. Ancora, nelle intenzioni del gruppo che acquista l’Ilva sembra non esservi traccia della richiesta, avanzata dalla Regione Puglia e anch’essa decisiva per un vero risanamento ambientale del sito industriale e di tutta l’area di Taranto, di programmare una graduale
“decarbonizzazione” dell’acciaieria, oggi alimentata interamente a carbone. Lo ripeto: se davvero l’obiettivo è dare un futuro industriale all’Ilva di Taranto, la via per raggiungerlo è costringere l’azienda, chiunque l’acquisti e la gestisca, a mettersi in regola con le leggi che in Italia e in tutta Europa pongono limiti invalicabili all’inquinamento e obbligano a garantire la sicurezza del lavoro.
Invece con le deroghe continue degli ultimi anni e le scelte opache degli ultimi mesi non solo si colpiscono diritti fondamentali delle persone, ma si accelera la corsa verso la definitiva chiusura dell’Ilva. Poi quando questo accadrà, si può essere certi che chi oggi lavora per un’Ilva sottratta a leggi e controlli, libera di inquinare impunemente, alzerà il solito stucchevole coro contro magistrati e ambientalisti.