Energia dall’agricoltura? Una soluzione c’è
Articolo di Francesco Ferrante e Beppe Croce su La Stampa – Tuttogreen
“Il clima evolve più rapidamente del previsto e le società umane non sono preparate”. Questo in estrema sintesi è il messaggio dell’ultimo rapporto sul clima presentato a fine marzo dell’Ipcc (Intergovernmental Panel on Climate Change). Rispetto alle indicazioni del precedente rapporto del 2007, il livello di rischio è stato elevato da rosso a viola, da ‘alto’ a ‘molto alto’. Da molto tempo l’Ipcc non ha più dubbi sulla causa principale di questa febbre: ossia le attività umane e in particolare i consumi crescenti di combustibili fossili.
Gli ultimi dati dovrebbero ricordare ai molti smemorati che la strada delle fonti rinnovabili e dell’efficienza energetica è l’unica possibilità per invertire questa tendenza e anche per un modello di benessere diffuso e più democratico. E dovrebbero anche invitarci a riflettere sull’importanza degli usi non alimentari delle colture agricole come fonte di materie prime rinnovabili alternative all’uso di quelle fossili. Ma questa opzione oggi è vista da una parte dell’opinione pubblica come una pericolosa competizione con la produzione di cibo. Non solo infatti la popolazione mondiale cresce di anno in anno e secondo alcune stime supererà i 9 miliardi di abitanti a metà secolo, ma è probabile che il cambio di dieta che sta avvenendo in gran parte dei Paesi emergenti – ossia l’aumento di consumo di proteine (carne e latticini) – richiederà sempre più suolo per soddisfare la domanda mondiale di cibo.
Il problema del suolo esiste, come dimostra il fenomeno del land grabbing, ossia dell’accaparramento di terre soprattutto nei paesi più poveri. Ma non si deve trascurare un dato paradossale: mentre nel mondo cresce l’allarme per il cibo, soprattutto a causa dei biocarburanti, in Europa continuiamo ad abbandonare terreni agricoli. Solo in Italia negli ultimi 40 anni abbiamo perso 5 milioni di ettari (dati Istat). Un terzo dell’intera superficie agricola nazionale. Una parte, 1,5 milioni, è stata cementificata, ma il resto è stato semplicemente abbandonato al bosco. Perché? La risposta è molto semplice. Perché quei terreni non davano reddito sufficiente. I prezzi riconosciuti agli agricoltori, anche a causa della competizione mondiale, sono praticamente fermi da 40 anni: vedi il caso del latte o quello dei prezzi infimi (anche sotto i 2 euro) di alcuni oli di oliva extravergine nei supermercati. Ma è inutile e sbagliato prendersela solo col mondo cinico e baro o col Wto. Sarebbe ora di cambiare innanzitutto il modello agricolo e alimentare che da mezzo secolo domina in gran parte del mondo e in Europa, complice la vecchia Pac. Per decenni negli stessi suoli è stata coltivata una sola varietà di pianta, quella a maggior reddito, per vendere magari meno del 10% della biomassa coltivata, come ad esempio la granella di mais o dei chicchi di grano, e buttando via il resto, magari bruciandolo a cielo aperto. E non si coltiva mais in Pianura Padana per produrre direttamente cibo, ma per nutrire i nostri bovini.
Se restituissimo all’agricoltura il suo ruolo multifunzionale, il non food, anziché una minaccia, potrebbe rappresentare una grande opportunità per migliorare la produzione di cibo, la difesa del territorio e del paesaggio e garantire un reddito adeguato all’agricoltore. Abbiamo bisogno di materie prime rinnovabili, a ciclo corto di carbonio, facilmente biodegradabili per contrastare il cambio di clima e la pressione ormai insostenibile sullo stock di risorse minerali del Pianeta. Per contrastare l’inquinamento dell’acqua e dell’aria provocato dai prodotti di origine petrolchimica. Per restare in agricoltura, pensiamo agli enormi consumi di plastica del settore: film di pacciamatura, teli di copertura delle serre, da Sanremo a Pachino. L’agricoltura italiana consuma circa 350.000 ton di plastica, un terzo dell’intero consumo europeo del settore (990.000 ton, fonte Scarascia Mugnozza). I film di pacciamatura vanno sostituiti nel giro di pochi mesi. Ebbene meno del 50% di questo materiale viene recuperato correttamente (dati PlasticsEurope 2011). E le altre centinaia di migliaia di tonnellate dove vanno a finire? In mare, in terra, dappertutto. Eppure basterebbe sostituire un film nero o bianco di polietilene con un film di bioplastica biodegradabile derivata da materie prime vegetali e conforme agli standard di certificazione europea. Nel giro di pochi mesi, anziché toglierlo da terra, quel telo si trasforma in ammendante, col vantaggio ulteriore di arricchire di sostanza organica il terreno e di evitare i costi di smaltimento. E’ una soluzione già oggi competitiva sul prezzo e noi italiani siamo tra i primi produttori al mondo di bioplastiche certificate biodegradabili e compostabili che trovano applicazioni in svariati settori oltre all’agricoltura: dai sacchi per ortofrutta e per la spesa alle stoviglie per la ristorazione collettiva, vasetti per florovivaismo, packaging per alimenti, igiene. O pensiamo all’enorme consumo di pesticidi e al fatto che molti di questi potrebbero essere sostituiti già oggi da fitofarmaci di origine vegetale, molto meno inquinanti e dannosi per la biodiversità.
Già ma come produrre biogas, bioplastiche, biolubrificanti senza far competizione alla produzione di cibo e foraggi?
Semplicemente tornando a fare, in chiave innovativa, quello che l’agricoltura ha sempre fatto prima dell’arrivo dei fertilizzanti chimici. Ossia non limitarsi a coltivare su un terreno un’unica pianta e peggio a estrarne un unico prodotto. Col grano in Toscana un tempo facevano almeno due cose: farina e cappelli di paglia. Poco o nulla diventava rifiuto e tutto tornava nel ciclo naturale.
Oggi, col supporto dell’innovazione, dobbiamo allora superare lo schema ideologico che contrappone food e non food in diverse forme:
1.Molte colture, come il grano, ci consentono di ottenere dalla stessa pianta diverse cose, alimentari e non. La pianta stessa è la prima bioraffineria. Dalla lavorazione del cardo (Cynara cardunculus), attualmente sperimentato in Sardegna come base vegetale per la bioraffineria di Matrica a Porto Torres, possiamo ottenere al tempo stesso olio per biopolimeri e biolubrificanti, farine proteiche per la zootecnia e polline pregiato per l’apicoltura. Il resto della biomassa (lignina e cellulosa) si può avviare a uso energetico. Stesso discorso per le filiere zootecniche: insieme al latte e ai latticini, posso produrre biometano dalle deiezioni, cosa ormai nota, ma anche, con un adeguato trattamento del digestato (il residuo del biogas), ammendanti, fertilizzanti o addirittura basi per bioplastiche (poliidrossialcanoati). L’intreccio food/non food potrebbe offrire l’opportunità di rimettere a coltura terreni fertili oggi non più lavorati o versanti di collina abbandonati al dissesto idrogeologico perché davano scarso reddito;
2.possiamo anche coltivare nello stesso terreno specie diverse, food e non food, con adeguati avvicendamenti o coperture permanenti del suolo (es. cereali vernini) o anche consociazioni (in alcune zone dell’America latina coltivano cotone biologico in consociazione con fagioli e manioca, garantendo in tal modo anche l’autosufficienza alimentare delle famiglie contadine). Un uso efficiente del suolo che offre diversi benefici: contribuire all’arricchimento di sostanza organica, alla biodiversità e alla resistenza spontanea ai patogeni e al tempo stesso assicurare all’azienda agricola un reddito annuo per ettaro decisamente più elevato;
3.e infine abbiamo il problema dei terreni contaminati, che purtroppo riguardano diverse aree del nostro Paese e non solo della Terra dei Fuochi. Su queste terre le coltivazioni non food sono oggi l’unica possibilità di mantenere l’agricoltura in quei luoghi e di non abbandonarli a ulteriore degrado o a speculazioni cementizie.
Beppe Croce (direttore Chimica Verde bionet) , Francesco Ferrante (vicepresidente Kyoto Club)