Dal Belgio ho già votato No al referendum, ecco perché

.Articolo di Monica Frassoni su Huffington Post – 

Fatto! Sono una degli italiani all’estero che ha già votato. Ho messo la mia brava scheda nella doppia busta e via all’ufficio postale, anzi all’edicola che fa da ufficio postale. Anche qui in Belgio l’austerity ha fatto chiudere un sacco di uffici e adesso edicole e supermercati fanno il servizio.

Ho votato No. Non tranquillamente. Né serenamente: prima di tutto perché già che c’eravamo avrei preferito dover pronunciarmi su una riforma fatta bene e utile. E poi perché in questa interminabile campagna elettorale, mi sono spesso sentita defraudata. Defraudata da un dibattito serio, sul merito, senza manipolazioni, egocentrismi e testosterone.

Senza rimpiangere un passato povero di momenti davvero esaltanti, non mi vergogno di dire che detesto la politica che va di moda oggi. Quella dei “ggiovani” e meno “ggiovani” che hanno imparato che per fare carriera non occorre studiare, basta urlare e sparare alto, gesticolare e non risolvere, semplificare tutto in 140 caratteri senza avere il gusto del confronto costruttivo invece che della prova di forza, attaccando e delegittimando chi non la pensa come te.

Per questo, considero l’insistenza con la quale Renzi ha messo sé stesso e il suo governo al centro della decisione sulla riforma costituzionale e il gusto “perverso” con il quale Grillini e gli altri si sono buttati nella mischia, una specie di filibustering ai danni di tutti. In pratica uno scippo.

E comunque secondo me questa riforma e la innecessaria prova di forza di cui alla fine è diventata lo strumento, mi sono sempre sembrate una perdita di tempo immane; cambiare la Costituzione non è una priorità rispetto alle urgentissime scelte politiche in materia economica, sociale, energetica, di politica estera ed europea che dovrebbero essere fatte e non si fanno.

Vista da Bruxelles, questa partita mi ha fatto anche pensare, fatte le debite differenze, a quella che ci ha imposto Cameron con il suo referendum sulla Brexit per mantenere il suo potere nel partito conservatore: un successo travolgente, come si sa.

Naturalmente, nessuno può dire davvero come andrà questo referendum, ma, proprio perché si è già perso anche troppo tempo, non credo che il governo debba cadere se Renzi lo perde. Non mi piace per niente l’idea né di un governo tecnico, né di una campagna elettorale precoce. Come ha detto Napolitano, e fino a poco tempo fa anche molta parte dell’opposizione, si vota sulla Costituzione, non sul governo.

Perciò, io mi sono messa i tappi nelle orecchie e ho letto il testo della riforma. La prima cosa che ho pensato è che ancora una volta avevano ragione i Radicali: il testo è disomogeneo e lo “spacchettamento” sarebbe stata un’ottima idea; anche perché avrebbe tolto senso alla scelta che molti si apprestano a fare: Sì (Renzi) No (non Renzi).

Io ho votato No soprattutto a causa di tre fattori, che rappresentano per me dei peggioramenti reali rispetto alla situazione attuale: cambiare sì, ma per pietà, non in peggio.

Il primo è che non compro a scatola chiusa. Pur essendo d’accordo sulla necessità di riformare il sistema di bicameralismo perfetto, penso che il Senato così come delineato dalla riforma sia un “rabelot”, come si dice a Brescia: un pastrocchio: prima di tutto, per la sua composizione, dato che come dimostra l’esperienza del Comitato delle regioni europeo, mischiare sindaci e consiglieri regionali introduce un elemento di disomogeneità tra i membri che ne complica il funzionamento e l’impatto; e poi, a differenza dei membri del Bundesrat tedesco che volenti o nolenti devono rappresentare le loro regioni, i senatori non hanno alcun vincolo di mandato. Allora tanto vale che siano eletti direttamente dai cittadini, no?

Inoltre, per la mancanza di chiarezza nella ripartizione delle competenze: leggendo il testo e scoprendo la miriade di casi nei quali rimane il bicameralismo e la possibilità per il Senato di intervenire anche nei casi di competenza della Camera, non è davvero realistico pensare che non ci saranno più conflitti di competenza o perdite di tempo; e infine, per il fatto che non si sa come i senatori saranno effettivamente eletti.

Peraltro, da ex parlamentare, convinta per esperienza diretta del valore del lavoro ben fatto in un’assemblea di eletti, non mi piace il meccanismo del “voto a data certa” e cioè l’idea che sempre e comunque il Parlamento dovrà dare la priorità alle proposte legislative del governo, se questo lo richiede. Già oggi lo spazio per l’iniziativa parlamentare è ridotto, incluso in materia costituzionale ed elettorale come ben si è visto in questo processo di riforma!

La seconda ragione del mio voto negativo è che non sono per nulla d’accordo con i notevoli bastoni messi tra le ruote dei meccanismi di partecipazione diretta dei cittadini al processo di elaborazione delle norme. Meccanismi già molto poco efficaci oggi e che si sarebbero potuti riformare in modo da migliorarli.

In un sistema mediatico profondamente malato, con una prassi che non garantisce l’autentica delle firme a meno di non disporre di eserciti di amici eletti, e finanziamenti difficilissimi per iniziative di base, è evidente che triplicare le firme necessarie per le proposte di legge di iniziativa popolare e passare da 500.000 a 800.000 firme per chiedere un referendum, significa che le chiacchiere sul l’importanza della partecipazione dei cittadini sono, appunto, solo chiacchiere.

Io non sono una grande amante dei referendum a ripetizione, anzi; ma sono sempre più convinta che la partecipazione consapevole dei cittadini e la loro mobilitazione restano armi potenti nei nostri sistemi democratici traballanti, nei quali la tentazione di delegare poteri a un capo che penserà a tutto è davvero fortissima. Con questa riforma, da qualsiasi parte la si guardi, questa partecipazione diventa più difficile.

Terzo, non sono convinta della ricentralizzazione sistematica dei poteri verso lo Stato, in particolare in materia di energia, infrastrutture e ambiente. So per esperienza diretta di battaglie per la maggior parte in corso da anni, dalla TAV in Valdisusa, al Ponte di Messina, alle concessioni autostradali, ai parchi, alle strutture energetiche, che il metodo migliore per assicurare il massimo livello di protezione della salute dei cittadini, dell’ambiente, delle casse pubbliche ma anche la spinta di attività economiche virtuose, non è la massima centralizzazione o decentralizzazione, bensì l’esistenza di un quadro normativo europeo adeguato e rispettato; di una seria strategia e pianificazione nazionale in particolare in materia energetica, che tenga conto che il pianeta si sta surriscaldando; e il coinvolgimento delle autorità locali su alcune delle scelte che li riguardano più da vicino, nell’ambito di priorità chiare e condivise.

Difficile e laborioso? Sicuro. Ma molto molto meno dannoso che le sciagurate decisioni che hanno portato a disastri come l’ILVA in pieno centro città e altri innumerevoli esempi di spreco e devastazioni varie o di omissioni e ritardi, quasi sempre dovuti all’impatto di lobby varie, burocrazia miope e a un dibattito pubblico nel quale la politica, inclusa quella degli oppositori, ha perso il gusto della mediazione e del confronto costruttivo.

Quindi ora, dopo anni di decentramento fatto male e di pastoie burocratiche dovute a scarsa efficienza amministrativa, si vuole passare all’estremo opposto, senza prima avere riformato un bel nulla e continuando a fare dipendere da interessi economici non trasparenti e da una ideologia disinformata e produttivista scelte fondamentali per molti territori. Francamente, preferisco di no e continuare a battermi politicamente al livello che serve.

Tralascio, per non dilungarmi troppo, altri aspetti che mi lasciano molto perplessa come per esempio i vantaggi dei minori costi della politica (limitati, o comunque molto minori rispetto a quelli indicati dal governo) e soprattutto il combinato disposto fra la riforma costituzionale e l’Italicum, che mi pare una legge veramente da buttare. O un’omissione grave come quella di non avere eliminato l’obbligo del pareggio di bilancio.

Termino la redazione di questo testo rientrando da una breve e molto coinvolgente missione con un gruppo di deputate verdi ad Ankara e a Istanbul. Da quel bellissimo e sfortunato paese, torno pensando che la partita del referendum in Italia sembra una disputa di lusso, confrontata con il dramma vero di centinaia di migliaia di persone travolte dalla repressione di Erdogan e dalla guerra che ha ripreso forza nel sud est del paese.

E torno con la consapevolezza della sete di un’Europa protettrice e amica e di politiche nazionali efficaci, che le tante persone che abbiamo incontrato, ma anche le tante persone in difficoltà dentro i confini della Ue, chiedono.

Insomma, dopo tante parole e consapevole di rischiare di cadere in una retorica un po’ facile, spero che l’energia che tanti potenti e meno potenti stanno mettendo in questa battaglia referendaria possa presto essere invece spesa per occuparci dei problemi veri di tanta dolente e coraggiosa umanità.