Clima, allarme rosso non solo per colpa di Trump

Articolo di Monica Frassoni su Huffington Post –

Non posso dire di sentirmi sorpresa dalla infausta scelta di Donald Trump di abbandonare l’accordo di Parigi, il più grande e comprensivo accordo globale contro la lotta ai cambiamenti climatici che la storia ricordi (accordo che, tengo a sottolineare, è stato sottoscritto da tutti i paesi del mondo, tutti, tranne il Nicaragua – che però si preventiva firmerà a breve – e la Siria).

 È un gesto in linea con il personaggio, volgare e superficiale, figlio di nomine come quella di Steve Bannon come consigliere speciale e Scott Pruitt come capo dell’Environmental Protection Agency. Si era già intuito al penoso summit a Taormina, in cui Trump è rimasto del tutto impermeabile ai richiami dei sei altri “grandi”, che pure non sono affatto senza macchia nella lotta ai cambiamenti climatici. Non sono sorpresa, ma furiosa, e guardando la scena surreale di una platea che applaude con fragore all’annuncio di un Trump ghignante mentre dice che “per proteggere i cittadini americani”, si ritira da Parigi, credo che in molti condividano questo mio sentimento.
 Lascio le discussioni Made in Usa sul ruolo dei senatori repubblicani e sui conflitti interni al gabinetto Trump (le due fazioni “pro-Parigi” e “anti-Parigi”) ad analisti e politologi. Qui vorrei semplicemente riflettere su quello che ci aspetta ora.
 Senza ombra di dubbio, il venir meno della seconda potenza mondiale più inquinante (dopo la Cina) potrebbe avere l’effetto almeno di ritardare la realizzazione dell’obiettivo finale di mantenere la crescita del riscaldamento globale sotto i 2°C (e impegnarsi verso gli 1,5°C), perché potrebbe venire meno il 5% del totale di riduzioni di gas serra.
 Inoltre, altre nazioni, per esempio la Russia o l’Arabia Saudita, potrebbero seguire l’esempio statunitense e abbandonare del tutto l’accordo, limitare o fallire i propri obiettivi. Il che risulterebbe nella catastrofe climatica che stiamo cercando in ogni modo di evitare.

Considerando che l’accordo di Parigi è già un compromesso minimo, che avviene in una situazione nella quale i tempi cominciano a essere molto stretti, questa è sicuramente una pessima notizia. Ma il suo effetto reale dipenderà dalla reazione degli “altri” e negli “altri” ci sono anche gli Stati, le comunità e le città americane.

Inutile quindi lasciarsi prendere dallo sconforto. Peraltro, se non fosse che gli effetti dei cambiamenti climatici stanno accelerando drammaticamente e non possiamo davvero perdere tempo, questa situazione non è nuova.

Ricordiamoci che quando Al Gore venne sconfitto da George Bush, gli Usa si rifiutarono di sottoscrivere l’accordo di Kyoto e si misero sostanzialmente fuori dal lavoro sui cambiamenti climatici, che è proseguito lentamente, troppo lentamente, ma senza di loro, anzi con la loro sostanziale ostilità, almeno a livello federale.

I negazionisti dilagavano ovunque e davano un grande sostegno a anche agli scettici di casa nostra: rimane storica una risoluzione del parlamento italiano ai tempi del governo Berlusconi, nella quale si diceva che i cambiamenti climatici in sostanza non esistevano.

Oggi i tempi sono sostanzialmente cambiati, non solo perché ormai sono in pochi a negare davvero che ci sia un grave problema nel cambiamento del clima, ma anche perché gli effetti sono sempre più evidenti e una nuova economia, meno “intensa” in risorse, non solo è possibile ma è l’unica vera prospettiva di riprendere attività economiche e occupazione in molte parti del mondo.

Inoltre, la tecnologia dimostra ogni giorno che, per assicurare l’uscita dalla povertà – che è spesso anche insalubrità, mancanza di acqua ed elettricità – di miliardi di persone, è necessario evitare di percorrere lo stesso, inquinante modello di sviluppo perseguito nella prima e seconda rivoluzione industriale.

Insomma, è improbabile che l’annuncio di Trump possa del tutto fermare la strada verso la realizzazione dell’accordo di Parigi. Negli stessi Usa (in cui le politiche climatiche sono più a livello statale che federale), in tutti gli stati, persino i più “redneck” e conservatori, la maggioranza dei cittadini sono favorevoli all’accordo sul clima. Nelle scorse settimane e mesi si sono moltiplicate lettere e appelli di numerosi Stati, città americane e grandi imprese che hanno dichiarato che, anche se Trump si ritirerà dall’accordo, loro andranno avanti; 27 città si sono impegnate per “tutto rinnovabile” e dall’annuncio di Trump si moltiplicano dichiarazioni che gli si mettono di traverso.

Non è solo la società civile o politici più o meno progressisti che si oppongono alla linea dura di Trump. Il vero scarto con il passato è costituito dal mondo della finanza, che si sta convertendo sempre più drasticamente e definitivamente alle rinnovabili, disinvestendo dalle imprese che utilizzano fonti fossili e investendo in quelle che sfruttano energia pulita.

Un esempio lampante è il Rockefeller Family Fund, che nell’aprile 2016 attaccò la compagnia ExxonMobil, rea di opacità e falsità sulle proprie strategie di adeguamento al cambiamento climatico. Paradossalmente, mentre nel mondo si diffondeva la voce della decisione di Trump, gli shareholders della stessa ExxonMobil mercoledì 31 maggio hanno votato con una maggioranza di quasi il 63% una risoluzione che obbliga la compagnia a riferire in maniera trasparente su come il proprio modello di business si confermerà agli sforzi globali per raggiungere l’obiettivo dei 2°C.

Questo nuovo modello di finanza, la cosiddetta “green financing” conviene non solo eticamente, ma anche economicamente, poiché la società è ormai direzionata verso le rinnovabili, a causa del crollo dei profitti per le fonti possibili, alla riduzione del costo delle energie pulite, alla creazione di posti di lavoro green vis à vis la perdita di molti posti di lavoro nei settori estrattivi “sporchi”.

Si calcola che nel 2016 il movimento globale del disinvestimento abbia raggiunto gli oltre 5 trilioni di dollari, posseduti da privati cittadini, organizzazioni religiose, banche, governi, ma soprattutto compagnie finanziarie, che investono in energie pulite sottraendoli a quelle fossili.

Ed è stato proprio il mondo del business a fare il “lobbying” più massiccio affinché il presidente Trump rimanesse nell’accordo, da Google, a Microsoft, a Unilever, ma invano.

C’è quindi un netto scarto tra l’amministrazione Trump e la società americana più larga. Non solo, c’è uno scarto tra Trump e il mondo intero, ormai. Sono state infatti immediate le reazioni degli altri governi, a partire dalla Cina, leader incontrastato della green economy da qualche anno, che ha ribadito il proprio impegno a sopperire alle possibili mancanze americane, all’Unione europea, il cui presidente della Commissione Juncker, con il suo solito aplomb, ha accusato Trump di fondamentalmente non conoscere neanche le basi legali dell’accordo (e di non capirci nulla in generale).

Sembra proprio che Europa e Cina vogliano annunciare una nuova alleanza a guida della lotta al cambiamento climatico, ed è questo che potrebbe fare tutta la vera differenza con Kyoto. Ci sono potenze pronte a sostituire gli Stati Uniti e a raddoppiare i propri sforzi.

La Cina, per esempio, ha installato sul proprio territorio quasi metà dell’impianto fotovoltaico mondiale; inoltre, la domanda di fossile è calata del 3% degli ultimi tre anni, causando una diminuzione delle emissioni che per il 2017 è prevista dell’1%.

Insieme all’Unione europea, è stato previsto un piano di aiuto di 10 milioni di euro dalla Ue alla Cina per creare un sistema di emissioni nazionali cinesi, che potrebbe essere in futuro venir collegato a quello europeo già esistente. Si discute anche di cooperazione tra Ue e Cina per quanto riguarda efficienza energetica e innovazione green, oltre a sostegni ai paesi in via di sviluppo per lo sviluppo di politiche climatiche.

Ovviamente, nulla di tutto questo è sufficiente, soprattutto se consideriamo la velocità del deterioramento della situazione, le ingentissime risorse pubbliche ancora date ai fossili ovunque nel mondo (10 milioni di dollari al minuto secondo un rapporto Imf) e il fatto che le politiche concrete, al di là delle dichiarazioni, sono ancora molto insufficienti e ambigue, anche in Europa e in Italia. E l’accordo di Parigi rappresenta un accordo di minima, non di massima.

La Ue si era posta l’obiettivo di raggiungere il 40% di riduzione del livello di emissioni entro il 2030, quando in realtà servirebbe almeno il 45%/55%. Non solo, dal 1990 al 2015 le emissioni erano già diminuite di circa l’1,1% annuo, perciò con le politiche attuali ora forse il modesto obiettivo del 2030 verrà raggiunto, mentre non verrà raggiunto quello dell’85-90% entro il 2050 (come da fonte Climate Action Tracker); insomma, a oggi l’Ue non è assolutamente in linea con gli accordi di Parigi.

Per di più, nell’attuale discussione europea sull’applicazione degli impegni di Parigi, molti Stati membri, tra i quali l’Italia, giocano un ruolo di freno, di limite e di ritardo persino dei modestissimi target fissati dalle nuove norme proposte dalla Commissione europea su rinnovabili ed efficienza.

L’Europa, perciò, per essere coerente con le dichiarazioni roboanti di ieri e ridiventare leader de facto, deve rivedere le proprie strategie e alzare l’ambizione, completando la transizione energetica verso le rinnovabili, disinvestendo dai fossili e investendo in energia pulita.

Trump e l’America fanno uno spaventoso salto indietro, ma dobbiamo ancora capire se saranno davvero da soli. Il mondo è cambiato. Non si può tornare al passato, ma si può ancora allontanare il futuro.

Come cantava Fabrizio De André, “non si può fermare il tempo, si può solo fargli perdere tempo”. E anche questo può rivelarsi fatale per il nostro pianeta.