Sarà il capitalismo a salvare il clima
Articolo di Roberto Della Seta e Francesco Ferrante su Huffington Post –
Il “negazionista” climatico Donald Trump, per il quale i cambiamenti del clima sono un’invenzione della Cina per danneggiare l’America, che diventa presidente degli Stati Uniti e dunque l’uomo più potente del mondo, che nomina a capo dell’Agenzia ambientale un amico intimo delle lobby petrolifere, che preannuncia scelte per rilanciare in America l’uso del carbone penalizzato da Obama.
L’Europa che anche sul clima – come ormai su quasi tutto – cammina in ordine sparso, rinunciando di fatto al ruolo di battistrada nella lotta al cambiamenti climatici tenuto per anni. L’Italia il cui premier Renzi – diversamente da Merkel, Hollande, Rajoy – diserta la Conferenza sul clima in corso a Marrakech, e che da parecchi anni, a prescindere dal colore dei governi, fa di tutto per ostacolare lo sviluppo delle energie pulite.
Erano davvero forti le ragioni per temere – da cittadini del mondo, da europei, da italiani – il fallimento del vertice marocchino sul clima, il cui scopo dichiarato era segnare qualche passo avanti, soprattutto sul punto degli impegni finanziari, nella concreta applicazione dell’Accordo di Parigi siglato un anno fa ed entrato in vigore il 4 novembre scorso, con il quale quasi tutti i Paesi del mondo e in particolare tutti quelli – Europa, Usa, Cina, India, estremo oriente… – che contribuiscono di più alle emissioni dannose per il clima, dovute prevalentemente all’uso di combustibili fossili, si sono impegnati a fare il necessario per evitare che l’aumento della temperatura sulla terra superi il grado e mezzo (siamo già un grado in più).
È andata così? Non proprio. Qui a Marrakech sono successe cose interessanti. La Cina ha alzato la voce con gli Stati Uniti, dicendo chiaro e tondo a Trump che dall’Accordo di Parigi non si torna indietro e che se la nuova amministrazione americana proverà a tirarsi fuori dalla lotta al “climate change”, questo rappresenterebbe un vulnus grave al complesso dei rapporti tra Pechino e Washington.
Sempre a Trump è stato spiegato che almeno per i prossimi quattro anni gli Stati Uniti restano comunque vincolati al trattato parigino, mentre oltre 300 “businessman” delle più grandi industrie americane – tra queste Du Pont, Gap, Hewlett Packard, Hilton, Kellogg, Levis, NIke, Mars, Schneider, Starbucks, Unilever – gli hanno rivolto pubblicamente un appello a non abbandonare sul clima la via seguita da Obama.
Ancora, sono stati fatti passi avanti sul tema del “chi paga”, ovviamente decisivo perché l’Accordo di Parigi non resti lettera morta: confermato l’impegno dei Paesi dell’Ocse a finanziare con almeno 100 miliardi entro il 2020 le politiche climatiche, accettato il principio che una parte non marginale di queste risorse debba andare per progetti di “adattamento”, cioè per fronteggiare i danni già prodotti dai cambiamenti climatici (desertificazione, scarsità di acqua) che colpiscono soprattutto i Paesi più poveri.
Un obiettivo questo urgente anche nell’interesse “egoistico” dell’Europa, visto che il riscaldamento globale allargando di continuo il fenomeno dei profughi ambientali costituisce già oggi una delle cause principali dei flussi migratori dall’Africa verso il nord del Mediterraneo.
Ma la Conferenza di Marrakech, che vede la presenza oltre che dei governi anche di centinaia di imprese e di Ong, è stata più di tutto l’occasione per constatare che al di là di ciò che dice o fa Trump, al di là delle incertezze della politica, al di là degli interessi legati all’energia fossile che restano fortissimi, nel mondo è già in atto e corre sempre più veloce una vera “rivoluzione” economica e tecnologica, fatta di più efficienza nella produzione e nell’uso di energia, di meno petrolio e carbone, di molte più fonti rinnovabili, dell’affermarsi progressivo del paradigma dell’economia circolare che minimizza rifiuti, inquinamenti, prelievo di risorse naturali.
Così, nel 2015 gli investimenti in energia pulita hanno raggiunto la loro punta massima e più che doppiato quelli in energia fossile (290 miliardi contro 130). Così, la Cina che è di gran lunga il primo consumatore al mondo di carbone ha deciso di dimezzarne l’uso entro il 2020. E così, in Italia il contributo delle fonti rinnovabili nella produzione di elettricità ha toccato la quota record del 40%.
Anche il settore dei trasporti, da cui proviene una bella fetta dei gas serra emessi in atmosfera, è in piena trasformazione, con tutte le più importanti case automobilistiche (unica assenza di rilievo la Fiat) che stanno investendo miliardi in progetti, in parte già realizzati, per diffondere l’uso dell’auto elettrica.
Del resto, non sembra che la vittoria di Trump dia motivi reali di ottimismo all’economia fossile: il prezzo del petrolio rimane basso, ciò dimostra che i mercati non credono che la tendenza ormai consolidata a un declino della domanda di greggio sia destinata ad invertirsi.
Tutto questo naturalmente non significa che la lotta ai cambiamenti climatici è vinta. Il clima sta cambiando a ritmi accelerati e il tempo per agire è sempre di meno. Vuol dire pero che oggi è il capitalismo, prima ancora della politica, che può dare il colpo di grazia a un modello di produzione e consumo dell’energia, quello basato sui fossili, che ormai produce costi ambientali, sociali, economici, geopolitici infinitamente superiori ai benefici che porta.