Articolo di Francesco Ferrante su Greenreport.it –
Che in Italia siano tempi duri per le rinnovabili è cosa nota. In tanti più volte abbiamo denunciato l’incapacità della classe dirigente di comprendere che la crisi climatica da una parte, e le straordinarie occasioni di sviluppo connesse alle nuove fonti di energia, avrebbero richiesto politiche lungimiranti, sul modello della Energiewende tedesca.
Invece abbiamo assistito ad attacchi continui da parte di tutti i governi che si sono succeduti negli ultimi anni. E quello attuale purtroppo non ha affatto “cambiato verso”, anzi si è distinto per sciocchezze inutili e dannose come lo spalma-incentivi. E anche a livello locale le cose non sono andate affatto bene. Si pensi alle folli regole volute dalle Regione Sicilia (all’unanimità) sull’eolico. Ma non sarebbe onesto nascondere che tra le difficoltà delle rinnovabili c’è anche un problema di consenso a livello territoriale.
Abbiamo già denunciato il ruolo da “utili idioti”, a servizio della conservazione fossile, di chi si inventa minacce terribili alla biodiversità delle pale eoliche (puntualmente smentite da tutte le ricerche scientifiche), di chi si accorge del consumo di suolo (dopo aver ignorato cementificazioni selvagge) solo in presenza di qualche pannello fotovoltaico (sì, d’accordo, è meglio metterli sui tetti), di chi dipinge un impianto di produzione di biometano da rifiuti o da scarti agricoli come se fosse una nuova Fukushima e di quelli che non sanno distinguere un piccolo impianto di geotermia a ciclo chiuso di nuova generazione e a emissioni zero da quelli vecchi, tradizionali e più impattanti.
In questi giorni all’onore delle cronache c’è una storia in Sardegna che può essere presa a paradigma. I fatti: un’azienda italiana – una società del gruppo Fintel, quotata in Borsa a Milano, con l’umbra Archimede Solar a fornirei fondamentali tubi ricevitori – si propone di realizzare in Sardegna un impianto solare termodinamico di 55 MW a sali fusi. Brevetto italiano. Tecnologia Enea che nasce da un’idea del premio Nobel Carlo Rubbia. Il solare termodimanico ha il vantaggio rispetto al fotovoltaico e all’eolico di “immagazzinare” l’energia prodotta, che quindi è disponibile sempre – non solo quando c’è il sole o il vento. In particolare la tecnologia italiana (a sali fusi) è preferibile rispetto a quella più diffusa (a olio) sia perché l’olio è infiammabile (e quindi più pericoloso) sia perché lo stesso è inquinante e comporta quindi problemi di smaltimento ogni 2-3 anni, quando deve essere cambiato.
È una tecnologia che ha bisogno – ovviamente – di molto sole ed è assai promettente per i suoi sviluppi in molti paesi in cui l’industrializzazione ha fame di energia e non si vuole, o non si può, continuare a sfruttare fossili (e in particolare il carbone), come ad esempio in Cina. Ma per rendere appetibile la tecnologia italiana bisogna realizzare un impianto di dimensioni adeguate (appunto, una cinquantina di MW almeno) che vada oltre il già funzionante e bellissimo impianto pilota di Massa Martana in Umbria.
In Italia le condizioni di irraggiamento solare sufficienti per far funzionare un impianto del genere ci sono solo in Sicilia, Sardegna e in una parte della Puglia. Da qui la scelta di Flumini Mannu in Sardegna. Ma non appena il progetto viene proposto media, comitati, politici di quella regione si scatenano contro sostenendo che l’area occupata (269 ettari) sarebbe sottratta alle attività agricole. Molto spesso sono gli stessi media e politici che si sono battuti strenuamente per tenere in vita iniziative decotte e inquinanti come quelle nel Sulcis (miniere di carbone, produzione di alluminio), centrali termoelettriche vecchie e pericolose, o che si battevano contro progetti innovativi come quello della chimica verde a Porto Torres. Oppure sono gli stessi che adesso propongono un improbabile quanto assurdo e anacronistico piano per la metanizzazione della Sardegna.
Insomma grande confusione sotto il cielo. Ultimamente anche un giornale nazionale come La Stampa si fa ingolosire dal fatto che il proponente è una società partecipata da capitali giapponesi, per imbastire una storia dove ci sarebbeun povero pastore sardo che resiste contro l’invasione nipponica (si suppone al grido di banzai!). È successo infatti che con qualche anno di ritardo rispetto ai tempi dettati dalla legge il ministero dell’Ambiente si è deciso a dare giudizio positivo sulla Valutazione di impatto ambientale e con una procedura (che anche a chi scrive appare un po’ forzata) ci si avvia verso l’esproprio del terreno per pubblica utilità.
Ora, qui non si discute la possibilità che siano stati fatti errore di comunicazione da parte del proponente, ma analoghi deficit di comunicazione vengono facilmente perdonati quando all’opera ci sono poteri forti. E in alcuni casi il “circo mediatico” è più forte di qualsiasi tentativo di informazione corretta. Esemplare il caso della fotografia diffusa dall’azienda per dimostrare la compatibilità delle attività di allevamento con l’impianto (solo 1,5% di quei 269 ettari viene effettivamente coperto) in cui si vedeva una pecora pascolare serenamente sotto gli specchi in un impianto in Spagna, immediatamente è stato detto che si trattava di un fotomontaggio (sic!).
In realtà fra le fila di specchi ci sono circa 16 metri di distanza e anche sotto gli specchi (posti a 3 metri da terra) l’area è utilizzabile. Infatti in quella centrale è previsto che si coltivino 200 ettari a erba medica e di riservarne 50 proprio al pascolo: un progetto di Agris (l’Agenzia regionale per lo sviluppo agricolo) in cui si utilizzerebbero anche tecniche di sub-irrigazione per ridurre il consumo d’acqua.
Il risultato della “sollevazione popolare” è che il progetto è a rischio e con esso l’idea di poter fare della Sardegna un’isola sempre più autosufficiente dal punto di vista energetico basandosi esclusivamente su rinnovabili (altro che Sulcis!) e all’Italia la possibilità di esportare tecnologia promettente.
Per cambiare serve urgentemente una politica di sistema che punti finalmente sull’innovazione e abbandoni la difesa dei fossili e che quindi consenta anche di fare corretta informazione, tranquillizzare i cittadini, imporre a tutte le aziende il corretto rapporto con il territorio. Perché anche “il bene va fatto bene”, e ciò vale pure per le rinnovabili.