Uno spettro si aggira per l’Italia: la geotermia

Articolo di Francesco Ferrante su Greenreport – Sembra assurdo ma è così: c’è talmente tanta paura verso la geotermia che una Regione (peraltro non delle più arretrate), la Toscana, è arrivata addirittura a imporre una moratoria su tutti i progetti. Senza distinguere peraltro sulla taglia tra bassa, media e alta entalpia.

Qualcuno potrà pensare, però, come sia naturale che una Regione dove storicamente è stata sfruttata tale fonte energetica, e non sempre con l’adeguato rispetto per il territorio, voglia imporre a sé stessa una certa prudenza. Ma non è così: polemiche ci sono egualmente in Umbria e nel viterbese e ovunque si propongano impianti di geotermia. Anche piccoli, quelli che sfruttano modesti salti di temperatura con impianti a circuito chiuso e quindi con tutta evidenza assai meno impattanti di quelli “storici”.

No. Purtroppo questa diffusa opposizione di comitati che si autodefiniscono ambientalisti, gruppi politici locali (che molto spesso dicono cose diverse a Roma e poi sul territorio), è parente piuttosto di quel diffuso effetto Nimby contro le rinnovabili che conosciamo bene e che in questi anni ha aiutato parecchio i difensori dei fossili.

Visto che la prima delle “nuove” rinnovabili che iniziò a essere competitiva fu il vento,  il fenomeno prese avvio con l’opposizione alle pale eoliche, responsabili di devastazioni “inenarrabili” secondo questi utili idioti, sino al punto di far dire a un assessore regionale siciliano (invero successivamente arrestato per connivenza con la mafia del cemento) che il vero problema del territorio siciliano erano “quegli ecomostri che sono le pale eoliche”: un imitatore di Johnny Stecchino, e della celebre battuta sul traffico a Palermo, a sua insaputa. Ricordo che allora, nei primi anni 2000, uno degli argomenti dei nemici dell’eolico che al contempo sostenevano di essere ambientalisti, era che l’eolico era troppo impattante, che in Italia non c’era vento e che invece si sarebbe dovuto fare ricorso al sole. Peccato che appena si iniziò a diffondere il fotovoltaico lo stesso divenne, spesso per gli stessi personaggi, associazioni e comitati, un “distruttore di paesaggio”  e un fattore che – addirittura – metteva in discussione la vocazione agricola di tante aree pregiate del nostro Paese. Polemica insensata, se si guardano i numeri reali, ma destinata a proseguire anche successivamente all’eliminazione di qualsiasi incentivo destinato agli impianti a terra. Se poi qualcuno propone un impianto solare termodinamico (innovazione di cui a parole tutti vanno fieri, visto che si deve al premio Nobel Carlo Rubbia) , apriti cielo! Qualche ettaro destinato a quegli impianti in Sardegna e si grida alla colonizzazione, alla distruzione del paesaggio e dell’agricoltura sardi.

Per la verità in Sardegna si assiste anche a un altro fenomeno che sarebbe farsesco se non impattasse con la tragedia della perdita di migliaia di posti di lavoro: l’opposizione alla chimica verde. I poli industriali sardi sono tutti in crisi perché quelle cattedrali nel deserto non si reggono più dal punto di vista economico (molto spesso dopo avere provocato per decenni vere – e non fantomatiche – devastazioni ambientali e danni alla salute): dalla chimica Eni a Porto Torres , alle centrali a carbone e che E.On ha recentemente venduto ai cechi, alle miniere del Sulcis, alla famigerata Alcoa. In questo quadro disperante per l’economia e per il lavoro, si affaccia la speranza della chimica verde con la riconversione del polo di Porto Torres a nord e con la proposta di un impianto di produzione di biocombustibili  al sud: intelligenti operazioni in cui si incontrano agricoltura e industria innovativa. Ma tanti comitati invece di chiedere che si proceda finalmente alle bonifiche di quelle aree (quella sì che sarebbe una vera battaglia ambientalista) si impegnano in tutti i  modi a osteggiare quei progetti perché ritengono che coltivare cardi o canne sia un danno per l’agricoltura food.

Stessa filosofia, quella che mette in contrapposizione food e energia, che nutre le ragioni delle decine, ormai forse centinaia, di comitati “no biogas” che si battono come leoni in una presunta  difesa del proprio territorio anche quando il progetto riguarda un impianto di poche centinaia di kW.

Nulla di nuovo? Nulla di nuovo è vero, se non il fatto , a mio avviso preoccupante, che queste contestazioni aumentano di giorno in giorno e sembrano destinate a crescere di pari passo con l’affermarsi della generazione distribuita.

Il punto mi pare che sia proprio questo e su questo si dovrebbero interrogare le associazioni ambientaliste più grandi e più serie e chi lotta per affermare le ragioni dell’ambiente anche in politica: se ci si batte per un futuro fondato su rinnovabili e efficienza e per il superamento dell’era fossile si deve coerentemente capire che questo può avvenire solo sfruttando tutte le fonti rinnovabili e in maniera diffusa sul territorio. Siamo disposti o no a fare una battaglia culturale su questo? Non si tratta, come è ovvio, a rinunciare a chiedere, anzi a pretendere che un impianto eolico debba essere inserito con cautela nello straordinario paesaggio italiano. Non vogliamo rinunciare a ribadire che il fotovoltaico è bene che si faccia sui tetti. E gli impianti solari termodinamici non devono, altrettanto ovviamente, togliere opportunità all’agricoltura di qualità. Come la chimica verde e il biogas che possono e devono utilizzare i residui  e utilizzare coltivazioni dedicate con criterio e preferibilmente in aree marginali o già abbandonate dagli agricoltori (si veda a proposito le ottime proposte di “Biogas fatto bene”) . E anche gli impianti geotermici, per tornare da dove siamo partiti, devono essere sottoposti a Valutazione d’impatto ambientale.

Ma pur con tutte queste cautele deve essere chiaro che se vogliamo davvero marciare verso una società fossil free, se vogliamo avere le carte in regola nella battaglia contro i cambiamenti climatici in atto, se vogliamo – infine – costruire un mondo più giusto in cui la generazione dell’energia sia diffusa e democratica e non in mano a poche grandi aziende, dobbiamo discutere di “come” realizzare gli impianti e non qualificare mai più come “ambientaliste” opposizioni preconcette e conservatrici.