Sogin, ma quanto ci costa smantellare le centrali nucleari?
Articolo di Francesco Ferrante su La StampaTuttogreen
La fine del decommissioning atomico slitta in continuazione, mentre i costi in bolletta per i cittadini diventano sempre più alti. La società pubblica Sogin appare in grave crisi
C’è una vicenda che si dovrebbe definire farsesca, se non presentasse alcuni aspetti assai pericolosi per la vita dei cittadini italiani, che racconta forse meglio di altre il rapporto distorto e sbagliato tra “tecnica” e “politica”: il decommissioning nucleare. Oramai oltre trent’anni fa, con il primo referendum antinucleare, i cittadini di questo paese decisero di non imbarcarsi in quella avventura (scelta peraltro ribadita a larga maggioranza anche nel 2011).
Niente di tutto questo. Non si è fatto praticamente nulla. Di deposito – più o meno definitivo – se ne parla da anni senza fare un solo passo avanti, ma quello che è più grave forse sono gli spaventosi ritardi accumulati da Sogin (il soggetto pubblico responsabile) dell’”ordinaria” attività di decommissioning. Un ritardo che perpetua il rischio in quei siti dove scorie nucleari sono ospitate precariamente (si pensi a Saluggia in Piemonte e ai rischi connessi a possibili alluvioni in un sito che ospita 230 metri cubi di rifiuti nucleari liquidi dagli anni settanta) e che costa a tutti noi risorse ingentissime. Sprechi spaventosi e inutili pagati dalle nostre bollette. Altro che incentivi alle rinnovabili (quelli almeno servono a produrre elettricità pulita, questi li stiamo buttando dalla finestra, in dosi annuali più piccole ma per tempi che di questo passo potrebbero essere spaventosamente lunghi).
Prendiamo solo quest’ultimo decennio. Nel 2008 Sogin presenta un piano per cui il decommissioning si sarebbe dovuto concludere nel 2019 con una spesa complessiva di 4,5 miliardi di euro. Due anni dopo aggiorna quel piano spostando la previsione di conclusione dei lavori al 2024 con una spesa aumentata a 5,7 miliardi. Nel 2013 prendono atto di aver fatto poco o nulla e spostano conclusone dei lavori al 2025 aumentando la spesa prevista a 6,32 miliardi di euro! Nel frattempo però Sogin costa e se si leggono i suoi bilanci possiamo calcolare che dal 2001 – l’anno in cui il Governo con la direttiva Bersani fissava al 2019 la fine del decommissioning – fino appunto al 2019 verrà a costare 4,3 miliardi di euro: quasi quanto nel 2008 si prevedeva sarebbe venuto a costare l’intero piano di decommissioning. Peccato che – parole dei suoi stessi dirigenti – siamo a un quarto di quel piano.
La scorsa settimana infatti l’Ad di Sogin, Desiata, aveva dichiarato che la spesa totale prevista adesso è arrivata a 6,8 miliardi – salvo correggersi qualche giorno dopo (sic!) in occasione dell’assemblea generale dell’Aiea a Vienna portando la stima a 7,2 miliardi – e che sono al 26% di quel piano, nel novembre scorso in audizione in Parlamento aveva detto 25% (con un incremento dell’1% all’anno finiremmo intorno al 2090!). Peraltro nel 2013 l’allora ad Casale aveva parlato del 22%.
Anche quest’anno peraltro Sogin non riuscirà nemmeno a spendere i soldi che aveva previsto di impegnare (se tutto va bene ne spenderà una sessantina invece degli oltre 80 che aveva promesso, riducendo peraltro le previsioni che pochi mesi prima indicavano per il 2017 130 milioni di attività di decommissioning). In questo caso non spendere, non è un risparmio: perché vuol dire che non si fa niente e che i costi lieviteranno inevitabilmente. Infatti quelli fissi (stipendi, mantenimento in sicurezza dei siti, funzionamento, ecc.) – che a questo punto si possono tranquillamente definire “improduttivi” – continuano a lievitare e quest’anno toccheranno la cifra record di 130-140 milioni: più del doppio delle risorse concretamente spese per fare il lavoro che Sogin dovrebbe fare, mettere in sicurezza siti e scorie.
Oggi nel 2017, quel lavoro di trattamento dei rifiuti pregressi che secondo il Bersani del 2001 si sarebbe dovuto concludere nel 2010, praticamente non è ancora nemmeno cominciato, per le resine di Trino e Caorso, per i rifiuti liquidi di Trisaia e Saluggia, ecc. E per la fine del decommissioning adesso si parla del 2035 (non si sa con quale credibilità ed è comunque impressionante che in 4 anni ne abbiano accumulato altri 10 di ritardo) con una spesa che considerando i ritardi in realtà non potrà essere inferiore agli 8 miliardi (se tutto va bene).
Si potrebbe pensare che tutto ciò sia responsabilità di tecnici non in grado di lavorare. Ma non è così. In Sogin ci sarebbero le competenze, se non si sono del tutto esaurite per sfiancamento da inoperosità in questi anni persi, ma è la mancanza di una politica che abbia il coraggio di scegliere a costituire il vero vulnus. A cominciare dalla scelta del management, che i risultati sin qui illustrati dimostrano non all’altezza dei compliti, per continuare con la definizione di atti di indirizzo che ridefiniscano strategie e priorità, visto che quelli individuati nel 2001 sono rimasti lettera morta.
In questo quadro, si inserisce la vicenda della (mancata) localizzazione del deposito nucleare, che, meglio chiarirlo a scanso di equivoci, ha poco a che fare con i ritardi e gli sprechi di Sogin. Dopo l’improvvida indicazione di Scanzano (e parliamo del 2003, in piena era berlusconiana) fatta senza alcuna verifica e contrattazione territoriale e per cui inevitabilmente bocciata, si scelse una procedura – persino un po’ barocca – per assicurare quella condivisone senza la quale impossibile pensarne la realizzazione che però si sarebbe dovuta basare come primo passo sulla pubblicazione della CNAPI, la carta del Paese dove indicare i possibili siti. Sogin e Ispra conclusero nel 2015 quel lavoro, ma i ministeri competenti (Sviluppo economico e Ambiente) si sono ben guardati dal farla pubblicare. Paura di perdere consenso. Ora dicono che lo faranno nel quarto trimestre di quest’anno. Con le elezioni alle porte? Con Sogin che annaspa? Lecito dubitarne.
E così siamo invece alla vigilia di un ennesimo probabile rinvio. E noi continueremo a pagare. E a rischiare.