Renzi-Juncker, vincere la partita per salvare l’Unione
Articolo di Monica Frassoni su Huffington Post –
Dietro ognuno dei punti che oggi dividono l’UE dal governo Renzi, c’è una battaglia non fatta quando doveva esserlo o una politica nazionale non convincente. E c’è anche un equivoco sull’avversario da battere. Ma questo contrasto può diventare un’opportunità se non resta un polverone effimero o, peggio, una ostilità che non serve a nessuno.
A mio modo di vedere, lo scontro non dovrebbe essere sulla sovranità o sul potere della burocrazia ottusa, ma sulle scelte di una precisa maggioranza politica, che i partiti socialisti hanno spesso e volentieri appoggiato, sfilandosi sia a livello europeo che a livello nazionale dalla battaglia per cambiare la stupida austerità imposta si dalla Germania di Schauble, ma allegramente sostenuta da tutti, inclusi Hollande e Renzi; almeno fino a quando la loro situazione nazionale non ha imposto di chiedere sconti, ognuno con il suo stile, Hollande sommessamente e accettando di fare il tappetino davanti a Merkel e Renzi tentando un gioco solitario sul rapporto di forza, sulla difesa della sovranità e comportandosi da vittima di discriminazione.
Dico subito che Juncker non è mai stato il mio candidato, non perché presiede la Commissione ma per le politiche che porta avanti, anche se Juncker rappresenta un parziale cambio di rotta rispetto a Barros; il suo tentativo di riacquistare un ruolo autonomo e politico per la COmmissione è animato da un sincero europeismo; operazione molto difficile anche perché ormai nella Commissione ci sono molti “infiltrati”, gente che sta lì per fare gli interessi del suo governo più che di tutti noi.
Ma il punto è che i commissari non sono burocrati. Sono politici legittimati da un voto del Parlamento. Come Renzi. Quindi è sbagliato e controproducente fare una battaglia contro la burocrazia europea in quanto tale. Sarebbe come arrabbiarsi perché esistono i governi invece che battersi per cambiarli. E si ottiene il risultato di rafforzare i Salvini e i Farage di turno, che vogliono delegittimare le istituzioni comuni europee e vendono con successo l’illusione che chiudendosi in casa si risolvano i problemi. Rincorrendo il loro anti-europeismo da bar, non si fa che rafforzarne le ragioni e il consenso: come diceva le Pen padre, mai fidarsi delle imitazioni, votate per l’originale.
È’ giusto invece arrabbiarsi sulle scelte politiche che stanno alla base di molte delle azioni della UE e reagire contro una realtà dove alcuni paiono essere più importanti degli altri. Ma anche qui Renzi e i vari governi che lo hanno preceduto hanno un problema. Come ha recentemente scritto Munchau, il commentatore del Financial Times, non si capisce in nome di cosa l’Italia continui a sostenere leggi che la danneggiano senza battersi quando è il momento di farlo, salvo lamentarsi e chiedere sconti una volta che sono in vigore. L’Italia è un grande paese dice Renzi. Giusto. E in quanto tale ha una grande responsabilità nella definizione della regole del gioco, anche di quelle che stanno oggi alla base dello scontro con la Commissione. Perché quando si adottarono i criteri di Maastricht con lo “stupido” patto di stabilità o il Fiscal compact, l’Italia stava nella stanza dei bottoni. Non risulta che abbia mai cercato le alleanze necessarie per fare altro o, come gli inglesi o i tedeschi, abbia lavorato a maggioranze alternative investendo tempo e talenti in Europa.
Quanto all’Unione bancaria, non si sono viste grandi battaglie per impedire che il terzo punto, quello della protezione comune sui depositi, venisse accantonato su richiesta della Germania, come accaduto all’ultimo Consiglio europeo e nonostante le raccomandazioni di Draghi. Ne’ risultano opposizioni italiane sul fatto che la Germania, con il suo enorme avanzo commerciale, stia violando il patto di stabilità esattamente come gli Stati deficitari e stia contribuendo a bloccare da anni la ripresa della crescita con la sua ossessione del pareggio di bilancio, come più volte contestato dal PE. Renzi (con Hollande e Juncker) ha impedito solo in zona Cesarini l’estromissione della Grecia dalla zona euro, ma ha sempre rifiutato il tentativo di Tsipras e di Varoufakis di rimettere in discussione politicamente l’austerità, la mancanza di trasparenza e di democrazia della Troika e dell’eurogruppo, perdendo una grande occasione per rendere questa una vertenza di interesse europeo e non l’occasione per punire uno scolaretto recalcitrante, al motto “noi mica siamo greci”.
Anche la tanto celebrata “flessibilità” è più uno sconticino che un cambio di rotta vero, quindi pare veramente puerile la gara a chi ne ha parlato prima.
Le critiche al Piano Juncker o il fatto che debba essere il bilancio comunitario e non quello degli Stati a finanziare gli aiuti alla Turchia per tenere lontani i rifugiati sono comprensibili, ma sono dirette al bersaglio sbagliato. È’ stato il Consiglio, guidato dai falchi del Nord ad impedire che ci fossero anche risorse fresche e facilmente accessibili nel Piano Juncker, a differenza di quanto proposto dalla Commissione e dal PE. Quanto alla Turchia, ci sarebbe piaciuto che la ragione del blocco fosse la crescente violenza della repressioni di Erdogan e le notizie di respingimenti dalla Turchia di rifugiati siriani verso il loro paese in guerra e non l’apertura di una procedura di infrazione.
Inoltre, quando si è deciso sulle prospettive finanziarie 2014/2020, non si sono viste battaglie pubbliche dell’Italia a sostegno della Commissione e del Pe contro il taglio del già striminzito bilancio comunitario di una sessantina di miliardi rispetto al periodo precedente (siamo a un ridicolo 1% del PIL). E anche all’Italia ha fatto comodo tenersi i denari per gli agricoltori e ridurre le risorse che erano state allocate alle politiche dell’immigrazione e dello sviluppo. Infine, io credo che la Commissione non abbia tutti i torti, considerato il nostro mega debito di certo non dovuto all’Ue, ad avere qualche dubbio sugli effetti sulla crescita economica di misure come il taglio della tassa per la casa per tutti o le varie mance.
Quanto all’ILVA, il vero scandalo è che la Commissione non si sia mossa prima, peraltro non sulla violazione di tutte le direttive possibili e immaginabili in corso da anni su ambiente e salute nonostante appelli, petizioni e l’evidenza di una situazione unica in Europa, ma sugli aiuti di Stato; su questo, non mi pare ci sia molto da obiettare: la Commissaria Vestager sa bene che è poco probabile che i soldi messi dallo Stato si stiano spendendo per il risanamento ambientale e non per continuare la produzione e pagare i fornitori. Non pare che ambiente e salute siano in cima alle preoccupazioni del nostro paese comunque. Anzi, il governo italiano, con l’ennesimo decreto, ha ancora rinviato le scadenze per misure importanti e impedire che l’ILVA continui ad appestare Taranto con i suoi veleni e considera ancora come un tabù l’apertura di una seria discussione sulla riconversione e sulle opportunità che il risanamento e bonifica di quell’area potrebbero rappresentare.
C’è da dire che, purtroppo, su questi temi, da tempo la Commissione non aiuta gran che, dato che è anche lei molto attenta agli interessi fossili delle industrie inquinanti. Peccato, perché sono convinta che se la Commissione agisse in materia ambientale, sociale e della salute con la stessa determinazione che in materia di deficit, crescerebbe di molto la sua credibilità e il sostegno dei cittadini europei nei suoi confronti. Ma anche questa è una questione politica e non burocratica.
Che dovrebbe fare dunque, Renzi? Dovrebbe approfittare di questa occasione per decidere di contare davvero in Europa, non rivendicando sovranità o autonomia per vincere qualche voto, ma per fermare il declino dell’Unione Europea e renderla capace di risolvere i numerosi problemi che oggi ne mettono in dubbio la stessa sopravvivenza e aprono scenari di disgregazione davvero da brivido: come? con le armi della politica: una visione chiara, la continuità e precisione della presenza, la capacità di tessere alleanze e cambiare le maggioranze. Non sono ottimista: sono tutte cose che non finiscono necessariamente subito sui giornali e non si possono facilmente riassumere in un tweet.