Renzi cambia verso: su ambiente ed energia il tuo governo è peggio di Monti e Letta

Articolo di Roberto Della Seta e Francesco Ferrante su Huffington Post –

Matteo Renzi: per favore cambia verso! Su energia e ambiente il bilancio di questi primi mesi dell’era Renzi è desolante, un impasto indigesto di spirito conservatore e palesi conflitti d’interesse. E poiché non si tratta di questioni di dettaglio, ma di temi che in tutta Europa segnano un discrimine importante tra visioni conservatrici e politiche che guardano al futuro, serve al più presto un’inversione di tendenza o l’ansia riformatrice esibita tutti i gironi dal presidente del consiglio si dimostrerà niente di più che un effetto speciale.

Diceva Agatha Christie che un indizio è un indizio, due indizi sono una coincidenza, tre sono una prova. Ecco tre indizi vistosi della vocazione molto più “grey” che “green” del governo Renzi.

Primo indizio: la vicenda dell’Ilva di Taranto. In confronto alle scelte di Renzi, Monti e Letta erano due rivoluzionari. La sostituzione del vecchio commissario Enrico Bondi con Piero Gnudi, uomo di stretta fiducia del padre della ministra dello sviluppo Guidi e di Confindustria, significa una cosa sola: la vittoria dei Riva, diretti responsabili di vent’anni di veleni industriali a Taranto, e di chi pensa che un piano rigoroso di risanamento ambientale degli impianti e di bonifica del sito (il piano cui pure con ritardi e incertezze stavano lavorando Bondi e Ronchi) sia troppo costoso, e che invece di costringere i Riva a finanziarlo sia molto meglio trovare qualche nuovo socio privato riducendo gli investimenti ambientali e, con ogni probabilità, riducendo anche l’occupazione. Come si sa, anche a Taranto c’è una discussione aspra sulla possibilità o meno di “ambientalizzare” l’Ilva: certo la nomina di Gnudi dà parecchi argomenti in più a chi sostiene che rendere l’Ilva compatibile con la salute dei tarantini sia ormai impossibile.

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Secondo indizio: l’attacco al referendum sull’acqua pubblica. Il 6 giugno scorso il consiglio dei ministri, su proposta della ministra Lanzetta, ha deciso di impugnare davanti alla Corte Costituzionale la recente legge regionale del Lazio sull’acqua pubblica, che ha accolto il principio – “stravittorioso” nei referendum del 2011 – per cui l’acqua è un bene comune e non può essere gestita come una merce. Il motivo di questa decisione, così si legge in un comunicato stampa di Palazzo Chigi, è che le norme approvate nel Lazio (aprile scorso) contrastano “con le regole riservate alla legislazione statale in materia di tutela della concorrenza, dell’ambiente e dell’ordinamento civile”. Insomma: un referendum popolare stabilisce a larghissima maggioranza che la gestione dell’acqua deve essere pubblica e il governo Renzi invece di modificare le norme nazionali che confliggono con questo risultato chiede l’annullamento di norme varate da una regione che recepiscono la decisione referendaria.

Terzo indizio, il più corposo: pieni poteri alla lobby dell’energia fossile. Durante il semestre di presidenza italiano l’Europa dovrà definire una posizione comune sul dopo-Kyoto in vista della Conferenza sul clima in programma a Parigi l’anno prossimo. Del tema si stanno occupando la ministra dello sviluppo Guidi e il suo viceministro De Vincenti, e la loro posizione sembra ricalcare quella di Confindustria: no a obiettivi vincolanti sull’aumento delle energie rinnovabili e sul miglioramento dell’efficienza, no a obiettivi troppo ambiziosi per la riduzione delle emissioni di gas serra responsabili dei cambiamenti climatici. Ci si schiererebbe con il Regno Unito e con alcuni Paesi dell’est, Polonia in testa, e se questa diventasse la posizione dell’Europa quando Renzi presiederà la riunione decisiva del Consiglio europeo, ciò segnerebbe un significativo passo indietro rispetto agli impegni preannunciati nei mesi scorsi. Impegni, va sottolineato, che avrebbero effetti benefici sia in termini ambientali che nel consolidare il primato economico, tecnologico, occupazionale dell’Europa nel campo dell’innovazione energetica.

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Il punto di vista di Confindustria condiziona del resto tutti gli indirizzi del governo in materia di politica energetica: dall’idea più volte ribadita dalla Guidi di dare il via libera a un piano nazionale di trivellazioni petrolifere a terra e off-shore, fino all’annuncio, fatto dopo il consiglio dei ministri di venerdì scorso, di un taglio retroattivo agli incentivi già riconosciuti ai produttori di energie innovabili. Pretesto per questo attacco all’industria energetica “green” è la tesi, rilanciata da Renzi anche nel suo discorso all’assemblea Pd, che le imprese italiane sono meno competitive dei loro concorrenti europei perché pagano l’energia molto più cara, e che questo differenziale di costi a loro danno dipende dagli incentivi alle rinnovabili. Si tratta, per l’appunto, di un pretesto, largamente smentito dai numeri.

Intanto va detto che i cosiddetti “energivori”, cioè le aziende che usano molta energia elettrica, la “sotto-pagano” grazie a sconti rilevanti: nella fascia di consumo tra 70mila MWh/anno e 150mila MWh/anno (quella appunto degli “energivori”) il prezzo dell’elettricità in Italia è inferiore del 15 per cento a quanto si paga in Germania (0,1234 c/kWh contro 0,1449 c/kWh, secondo i dati Eurostat riferiti al primo semestre 2013); così, per anni i media, i politici (anche autorevoli), i sindacalisti hanno raccontato la favola della chiusura dell’Alcoa in Sardegna per colpa dell’elettricità troppo cara, ignorando (o tacendo) che quell’industria pagava l’energia elettrica meno dei suoi concorrenti tedeschi nella produzione di alluminio! Quanto alle medie e piccole imprese, se è vero che pagano l’elettricità leggermente di più (4%) degli omologhi tedeschi (al contrario delle famiglie, che in Italia spendono per l’elettricità il 30% in meno che in Germania), va aggiunto che i costi elettrici sono l’ultimo dei loro problemi: infatti solo per il 3,8 per cento delle imprese italiane il costo dell’energia elettrica supera il 3 per cento del fatturato aziendale, mentre per il 19,2 per cento incide per meno dello 0,1 per cento e per un altro 50 per cento non arriva allo 0,5 per cento dei ricavi.

La verità è che nel governo Renzi la politica dell’energia sembra farla Confindustria, la quale con lo sguardo costantemente rivolto all’indietro più che curarsi dell’interesse delle piccole e medie imprese italiane cerca disperatamente di fermare una rivoluzione, quella dell’energia pulita, che in Italia come in tutta Europa sta cambiando volto ai sistemi energetici. E il paradosso è che vittime di questa “resistenza” – in sé legittima se non pretendesse di “farsi governo” e di contrabbandare una convenienza privata per interesse generale – sono proprio alcune centinaia di piccole e medie imprese delle rinnovabili che in questi anni di crisi hanno creato lavoro, ricchezza, gettito fiscale e al tempo stesso hanno contribuito a ridurre l’inquinamento.

Messi insieme tre indizi tanto univoci – Ilva, acqua pubblica, energia -, Agatha Christie non avrebbe dubbi su chi è “l’assassino”. Noi, meno cinici, speriamo ancora: Renzi è diventato popolarissimo come campione di una politica che corre verso il futuro, sarebbe triste che in fatto di ambiente e energia più che al “nuovo che avanza” finisse per somigliare al “vecchio che ritorna”.