Oleodotto Dakota, perché Intesa San Paolo è coinvolta?
Articolo di Francesco Ferrante su La Stampa.it –
Donald Trump ha cominciato il suo mandato con una moltitudine di ordini esecutivi tesi a smantellare alcuni dei segni politici distintivi dell’era Obama, con l’obiettivo di esaudire le proprie promesse ai gruppi di interesse che lo avevano sostenuto nella sua campagna elettorale. E così il controverso MuslimBan (sospeso dalla magistratura) , gli atti che cancellano le restrizioni su inquinamento delle acque che Obama aveva imposto a chi gestiva le miniere di carbone, persino la proposta di indebolire le norme anticorruzione per Big Oil che operano all’estero hanno segnato queste prime settimane trumpiane. E hanno ovviamente scatenato le proteste degli ambientalisti americani – da organizzazioni come il Sierra Club, la più grande associazione Green degli Stati Uniti, a 350.org il movimento più diffuso in azione contro il climatechange.
Il D.A.P. è una sezione di un gigantesco oleodotto con cui si vorrebbe trasportare il greggio da Bakken, in North Dakota, sino alle raffinerie e ai porti del Golfo del Messico, via Patoka, in Illinois.
Con una capacità massima di circa 570mila barili al giorno, questa pipeline che taglierà gli Stati Uniti da nord a sud, e potrebbe farsi carico del 50% dell’attuale produzione petrolifera del North Dakota.
Per alcuni il vero motivo della scelta del Presidente sarebbe uno dei suoi clamorosi conflitti di interesse. Sembra infatti che Trump abbia investito in Energy Transfer Partners, la compagnia che sta dietro il Dakota Access. Interesse che c’era senz’altro almeno in passato visto che il suo portavoce ha dichiarato, senza darne prova però, che il presidente sarebbe già uscito da questo investimento.
Il progetto, come è noto, è stato fin dall’inizio contestato dalle tribù indiane del North Dakota che si oppongono alla violazione dei loro territori sacri e ancestrali e per tutelare l’ambiente, in particolare le faglie idriche messe a rischio dai lavori di costruzione. Dopo mesi di proteste, l’amministrazione Obama aveva così deciso di bloccare il progetto.
Ma il progetto coinvolge in qualche maniera anche gli europei e noi italiani in particolare, il Dakota Access Pipeline è infatti direttamente finanziato da 17 banche, non solo americane. La Food & Water Watch nonprofit ha scoperto che oltre a istituzioni bancarie nordamericane come Wells Fargo e JPMorgan Chase, vi sono anche interessi e soldi di origine europea.Le francesi BNP Paribas, Natixis, Societe General e Credit Agricole, le olandesi ABN Amro Capital e ING Bank, le tedesche Deutsche Bank e BayernLB, la spagnola BBVA Securities, le inglesi HSBC Bank, Compass Bank, Barclays, ICBC London e Royal Bank of Scotland, le svizzere UBS e Credit Suisse, la norvegese DNB Capital/ASA. E l’italiana Intesa San Paolo.
La scorsa settimana gli esponenti Verdi tedeschi nell’ambito di una campagna dell’European Green Party hanno indirizzato una lettera ai vertici della banche del loro Paese coinvolte, chiedendo loro di recedere dal finanziamento di un’opera infrastrutturale che provoca notevoli danni ambientali, viola i diritti delle comunità locali ed è incompatibile con gli obiettivi climatici assunti a livello internazionale e quelli connessi allo sviluppo sostenibile statuiti dalle Nazioni Unite (United Nations’ Sustainable Development Goals – SDGs). La notizia ha avuto grande eco sui media tedeschi.
L’oleodotto ha inoltre un elevato rischio finanziario: nel passaggio ormai inevitabile ad un’economia a basse emissioni di carbonio tali infrastrutture per energie fossili diventano investimenti non recuperabili.
Analoga lettera è stata in queste ore inviata dagli esponenti locali dei Greens alle varie banche europee coinvolte, tra cui ovviamente l’italiana Banca Intesa San Paolo.
I co-portavoce di Green Italia Annalisa Corrado e Oliviero Alotto infatti hanno scritto al Presidente Gros – Pietro e al Ceo Messina chiedendo di fermare il loro impegno nel Dakota Access Pipeline, ricordando anche che la banca si porrebbe così in antitesi al suo dichiarato impegno in favore delle famiglie e delle imprese che investono nel settore dell’energia pulita, tramite il progetto Energia 2020 e all’impegno che Intesa ha più volte ribadito per il sostegno all’ economia circolare anche attraverso la sua collaborazione con la Fondazione Ellen Macarthur. Una contraddizione troppo evidente da non richiedere di essere immediatamente sanata.
L’auspicio è che la contrarietà dell’opinione pubblica, non solo americana, possa bloccare questa infrastruttura che riporterebbe indietro di decenni l’orologio energetico statunitense e mondiale.