La rivoluzione allegra non si ferma a sinistra

Articolo di Monica Frassoni sul Manifesto – 

Gli eventi di que­sti giorni, dalla bat­ta­glia sul «fronte greco», al Quan­ti­ta­tive easing, alla par­tita a scac­chi con Putin con il suo tra­gico tri­buto di san­gue (e il corol­la­rio quasi pate­tico delle gesti­co­la­zioni di Renzi) ci dimo­strano molto chia­ra­mente che l’Ue non è ancora avviata sulla strada della discon­ti­nuità che molti, e i Verdi euro­pei fra loro, auspi­cano da molto tempo. La par­tita euro­pea è fatta di rap­porti di forza, e non val­gono gli argo­menti razio­nali e le buone ragioni. Il fatto che da sei anni le poli­ti­che lacrime e san­gue impo­ste alla Gre­cia (e non solo) l’abbiano spinta nel bara­tro, sal­vando i soldi degli inve­sti­tori pri­vati e tra­sfe­ren­done i debiti sui cit­ta­dini tede­schi, ita­liani, fran­cesi, spa­gnoli e per­fino lituani o let­toni, non sono ser­vite ad abban­do­nare o almeno a ren­dere meno feroce la spinta alle riforme di bilan­cio e ai tagli come unica rispo­sta ai defi­cit interni. La par­tita intorno alle scelte di Tsi­pras è resa più dif­fi­cile dal fatto che i part­ner euro­pei trat­tano il nuovo governo con mag­giore dif­fi­denza e seve­rità che quello di Sama­ras — poli­tico diret­ta­mente e per­so­nal­mente respon­sa­bile delle frodi e bugie che hanno por­tato la Gre­cia alla ban­ca­rotta — sem­pli­ce­mente per­ché cerca di rom­pere il cir­colo vizioso dei tagli che por­tano a più debito e a mag­giore sof­fe­renza e dipendenza.

D’altra parte, il bal­letto di Junc­ker intorno al suo piano, che con­tiene, certo, ele­menti di inte­resse, o la reto­rica di Renzi sulla fine dell’austerità non rie­scono a dis­si­mu­lare il fatto che quando Schau­ble abbaia, molti, com­presa la Com­mis­sione, si met­tono a cuc­cia. Vari paesi, inclusi il nostro e la Fran­cia, si accon­ten­tano di un po’ di cle­menza e qual­che rin­vio e sono molto otti­mi­sti sul fatto che il Quan­ti­ta­tive easing serva a ren­dere il cre­dito più facile. È in que­sto con­te­sto di sostan­ziale indi­spo­ni­bi­lità a rom­pere dav­vero con le poli­ti­che degli ultimi anni che si deve muo­vere in Ita­lia (e non solo) quel largo e vario­pinto fronte di «euro­pei­sti insu­bor­di­nati» di spi­nel­liana memo­ria, diviso secondo me in modo inop­por­tuno ed elet­to­ral­mente non vin­cente dalla scelta di fare alle euro­pee una lista Tsi­pras limi­tata allo stretto peri­me­tro della sinistra-sinistra. Il rischio di ritro­varsi nello stesso spa­zio chiuso basato su iden­tità impor­tanti, ma orien­tate più alla difesa che all’attacco per la crea­zione di un nuovo mondo e del con­senso neces­sa­rio a costruirlo, mi sem­bra molto pre­sente nella pro­po­sta del Fronte Pop degli amici Airaudo e Mar­con. Biso­gna rian­no­dare il filo con chi nella poli­tica e nella società costrui­sce un’alternativa, anche se lo fa ancora in ordine sparso e con moda­lità diverse. Sono d’accordo che ci sia uno spa­zio di azione poli­tica aperto dalla scelta di Renzi del par­tito della nazione.

Da ambien­ta­li­sta, ho detto e scritto in molte occa­sioni che legare in una pro­po­sta di tra­sfor­ma­zione eco­lo­gica dell’economia e della società le innu­me­re­voli ver­tenze sul ter­ri­to­rio, ma anche i tanti ope­ra­tori eco­no­mici inno­va­tivi e crea­tori di nuovi lavori, rap­pre­senta una sfida che va al di là delle appar­te­nenze asso­cia­tive e di par­tito. Finora pero, que­sta tema­tica è rima­sta sullo sfondo per la sini­stra, le asso­cia­zioni si sono a spesso riti­rate nell’Aventino della dif­fi­denza in blocco per tutta la poli­tica, e nep­pure noi siamo ancora riu­sciti a coa­gu­lare le forze disperse dell’ambientalismo italiano.

Quindi ben venga la pro­po­sta di rior­ga­niz­zare que­ste forze euro­pei­ste e insu­bor­di­nate. Ma, som­mes­sa­mente, mi per­metto di fare alcune con­si­de­ra­zioni sulle moda­lità pro­po­ste: innan­zi­tutto, lo spa­zio che si deve ambire a costruire non è quello dell’«opposizione». Ma come, ci pre­pa­riamo a con­ti­nuare a per­dere? La nostra pro­spet­tiva deve essere quella dell’alternativa di governo e di scelte che non devono limi­tarsi a orga­niz­zare la resi­stenza. Quindi non pos­siamo par­lare solo ai sin­da­cati, alle Ong o alla sini­stra: dob­biamo smon­tare pezzo a pezzo e con deter­mi­na­zione le false verità di Con­fin­du­stria e Lega, pun­tando a ricon­qui­stare chi è attratto dal loro mes­sag­gio. E dob­biamo porci in diretta inter­lo­cu­zione con chi innova, con chi costrui­sce una nuova Ita­lia, non solo dalle meri­to­rie mense della Cari­tas, ma anche da un’impresa pri­vata o un’amministrazione locale, pur se non tar­gata «sini­stra». Que­sto è per me un punto impor­tante. Non sono sicura che il nostro obiet­tivo debba essere copiare Syriza e Pode­mos, date le grandi dif­fe­renze tra i nostri paesi. Ma nella loro espe­rienza c’è un ele­mento sul quale riflet­tere: il supe­ra­mento della sini­stra come ele­mento iden­ti­ta­rio costi­tuente e dominante.

Come notano Airaudo e Mar­con, Pode­mos — creata da un gruppo di cin­que pro­fes­sori vicini a Izquierda Unida — non parla di riag­gre­gare la sini­stra che, con­tra­ria­mente all’Italia, è tra­di­zio­nal­mente mag­gio­ri­ta­ria in Spa­gna. Ma parla di chi sta den­tro e di chi sta fuori dal sistema, chi sta arriba e chi abajo e sta costruendo in modo spre­giu­di­cato e lon­tano dagli schemi una pro­po­sta di governo sle­gata da ogni alleanza con schie­ra­menti esi­stenti. Tsi­pras ha pre­fe­rito allearsi con un par­tito di destra e nazio­na­li­sta per non essere costretto ad avere con­di­zio­na­menti interni rispetto alla sua stra­te­gia di supe­ra­mento del piano della Troika.

Insomma, per costruire un sog­getto poli­tico alter­na­tivo e di governo non basta coa­gu­lare il dis­senso pur impor­tante di set­tori vitali del paese. Per bat­tere la «rivo­lu­zione» ren­ziana e il par­tito della nazione non neces­sita una «con­tro­ri­vo­lu­zione» iden­ti­ta­ria e talora da amar­cord, ma un’altra rivo­lu­zione, più radi­cale ma anche più alle­gra. E in que­sto senso noi pen­siamo che la pro­po­sta di nuova eco­no­mia e società non possa fare a meno di inte­grare dav­vero e in modo pro­fondo, anzi «rivo­lu­zio­na­rio», l’idea ora­mai col­lau­data di un Green New Deal che, a par­tire dalla realtà dei cam­bia­menti cli­ma­tici, della scar­sità delle risorse e della dipen­denza ener­ge­tica, punti ad atti­vità eco­no­mi­che «intense» in lavoro di qua­lità e inno­va­zione, alla rior­ga­niz­za­zione degli spazi urbani, alla mobi­lità soste­ni­bile, alla demo­cra­zia ener­ge­tica; tema­ti­che que­ste che danno alle parole «libertà» e «par­te­ci­pa­zione» un senso nuovo, lon­tano da indi­vi­dua­li­smi esa­spe­rati, ma anche da impo­si­zioni mora­liz­za­trici. E magari pos­sono aiu­tare a uscire da quelle ambi­guità che hanno por­tato Lan­dini a par­lare di «tri­vel­la­zioni com­pa­ti­bili con l’ambiente» o a con­trap­porre da sini­stra il tema del lavoro a quello dell’ecologia, come mi è capi­tato di sen­tire, dimen­ti­cando i 230mila posti di lavoro creati dalle ener­gie rin­no­va­bili, o il fatto che l’Italia verde in Europa è seconda solo alla Germania.

C’è un con­fronto di cul­ture da inven­tare, cer­tezze sto­ri­che da modi­fi­care, com­pa­gni e com­pa­gne di strada ina­bi­tuali da coin­vol­gere, scelte sco­mode da fare. Ci pos­siamo cer­ta­mente pro­vare, ne vale la pena. E auspico che l’evento del 28 marzo sia la prima occa­sione per farlo.