La Conferenza sul clima rivela come solo in Italia l’ambiente non sia politica
Articolo di Roberto Della Seta e Francesco Ferrante su Huffington Post –
La Cop23, ventitreesima conferenza Onu sul clima che si è appena conclusa a Bonn, non passerà alla storia. Nulla a che vedere con l’entusiasmo che accolse la firma degli Accordi di Parigi due anni fa, piuttosto un faticoso lavorio per cercare l’intesa su punti non ancora del tutto definiti del trattato parigino quali il trasferimento di risorse ai paesi poveri per sostenerne le politiche climatiche, e per mettere le basi affinché la revisione degli impegni nazionali di riduzione delle emissioni climalteranti prevista dal prossimo anno si realizzi secondo linee guida condivise.
Insomma, giornate interlocutorie e non esattamente eccitanti. Ciò tuttavia non ha impedito ai due leader europei più importanti, Merkel e Macron, d’intervenire alla Conferenza, unici tra i capi di governo dell’Unione. Lo hanno fatto per ribadire l’importanza delle politiche per combattere i cambiamenti climatici, e lo hanno fatto per riaffermare le loro ambizioni di leadership ¨globale¨ come è nel carattere di entrambi e nella stessa vocazione dei paesi che governano. Nel caso di
Angela Merkel, prendere la parola alla conferenza sul clima è stata anche una scelta dettata da ragioni squisitamente interne, poiché questi sono i giorni decisivi delle trattative con Liberali e Verdi per la nascita del nuovo governo.
Sì, perché alle Conferenze sul clima si fa politica. Da sempre. Qui a Bonn l’hanno fatta i cinesi, stringendo alleanze e partnership privilegiate con mezzo mondo nelle quali il finanziamento delle politiche climatiche diventa la premessa per accrescere la propria influenza economica. L’hanno fatta gli americani anti-Trump: dagli ambientalisti di
“We are still in”, forse il padiglione più visitato del summit, a Michael Bloomberg il cui attivismo ¨climatico¨ fa dire a più di un osservatore che magari pensa a candidarsi alle prossime presidenziali Usa, al governatore della California Jerry Brown che guida il fronte sempre più ampio degli Stati e delle città americani che rifiutano di seguire Trump nella restaurazione dell’¨ancient régime¨ delle energie fossili.
L’Italia invece no: politica non ne ha fatta a Bonn come non ne ha fatta quasi mai nelle conferenze sul clima del passato. D’altra parte, con le eccezioni di Parigi (Cop21 nel 2015) e Marrakech (Cop22 nel 2016), il nostro paese non ha mai allestito nelle diverse Cop un suo ¨padiglione¨, un luogo fisico di incontro dove presentare le sue politiche e buone pratiche. Non ce l’aveva nemmeno quest’anno quando pure, per una volta, avrebbe avuto un’ottima carta da giocare: la scelta di chiudere tutte le sue centrali a carbone
entro il 2025 come previsto dalla recentissima
Strategia Energetica Nazionale.
La veritàè che in Italia le questioni ambientali restano tuttora ¨impolitiche¨. Prima l’intera classe dirigente le considerava quasi solo folklore, roba buona per il volontariato, per boy scout mal cresciuti al massimo. Da qualche anno l’ambiente, con la sua carica d’innovazione, è invece diventato centrale in tanta economia anche italiana, basti pensare alla
spettacolare inversione di rotta dell’Enel divenuta in brevissimo tempo da alfiere di nucleare e fossili a campione (internazionale) delle rinnovabili e della digitalizzazione, o alla chimica verde di cui siamo leader mondiali. Ma la politica èrimasta impermeabile a questo epocale cambiamento.
Merkel suda sette camicie per trovare un punto di equilibrio fra Liberali e Verdi sulla data di uscita dal carbone (che in Germania pesa molto di più che in Italia). È politica. Greenpeace già strepita perché ha paura che i Verdi tedeschi accettino un compromesso al ribasso, e siccome un eventuale accordo dovrà essere approvato in un referendum dagli iscritti ai Grünen, l’opinione degli ambientalisti diventa un fattore importante per capire chi governerà la Germania. Anche questa è politica. Il clima è politica quanto lo sono le politiche per il lavoro o quelle sull’immigrazione. Solo in Italia no.