ILVA: solo l’industria senza futuro é contro l’ambiente
Articolo di Monica Frassoni –
Ho letto con molto interesse, ma con crescente sconcerto l’articolo di Dario Di Vico sulla vicenda dell’ILVA sul Corriere della sera del 24 luglio. Perché mi pare che su questa vicenda ci sia stata e ci sia ancora un pregiudizio che tende a sminuire come meno importanti le questioni che riguardano la salute e l’ambiente (e anche chi le porta, qui addirittura definiti come “sindacalisti estremisti o consulenti inaciditi” che raccontano fandonie ai giudici) rispetto alle ragioni dell’occupazione e dell’attività industriale, qualsiasi essa sia o quasi.
Si badi bene, l’inquinamento in questione non era inevitabile, almeno non nelle dimensioni enormi di oggi. I Riva hanno un’acciaieria a Marcinelle in Belgio, ma non hanno mai avuto problemi. I Belgi rispondono quando chiediamo perché con un certo stupore “perché qui le norme si rispettano”. Appunto. Qual è il limite della regola, al di là del quale questa non deve più agire, diventa “relativa” e sottoposta ad altre priorità?
Pare che non basti che ci siano di mezzo centinaia di morti, decenni di aria inquinata e che continuino a esserci poche garanzie che le cose cambieranno davvero, a parte qualche pannicello caldo qua e là.
Non sono sicura come pare essere l’autore che il mondo industriale italiano, soprattutto quello dominante nella Confindustria di Squinzi e nel corrispondente europeo di BusinessEurope presieduto dalla Marcegaglia, abbia davvero preso la strada “di una maggiore attenzione all’ambiente e al capitale umano”. Anzi. Pur se l’Italia è la seconda “green economy” in Europa per giro d’affari ed esportazioni dopo la Germania[1], questi settori sono poco rappresentati e fanno molta fatica ad emergere. L’azione che si vede è quella contro la legge sugli eco-reati; contro il pacchetto clima ed energia 2030 e contro un accordo ambizioso di riduzione delle emissioni a Parigi; contro esperienze importanti di co-gestione con le forze sociali; a favore d’infrastrutture pesanti, gasdotti, centrali; a favore della penalizzazione del settore delle rinnovabili; di una visione della competitività limitata al costo del lavoro. Ed è un vero peccato, perché queste posizioni di retroguardia ostacolano proprio la rinascita dell’industria, che per essere competitiva e di qualità deve accettare la sfida “verde” e puntare sulla formazione.
Questa è anche la strada, come dimostrano ormai molti studi in ambito accademico e di organizzazioni internazionali dall’ILO all’Unep all’OCDE, per creare nuova occupazione. Dario di Vico dice giustamente che i settori “labour intensive” non possono solo essere il facchinaggio o i supermercati. E infatti non è cosi. Lavorare nel settore dell’agricoltura biologica è molto più “labour intensive” che fare agricoltura estensiva e industriale. Puntare sul fotovoltaico “produce” 40 lavoratori a MW, l’eolico 15 e l’idroelettrico 11. Di contro, quando si tratta di carbone, la richiesta è di appena 8 dipendenti a MW e per il petrolio uno e mezzo[2]. Ovviamente, tutto questo non cade dal cielo. Ci vuole, come giustamente De Vico sottolinea, una politica industriale degna di questo nome, e dunque regole e investimenti.
C’è poi un altro elemento importante a mio avviso. Questo discorso sulla relatività delle norme ambientali, sociali potrebbe essere almeno discutibile se fossimo in un paese nel quale c’è un’eccessiva severità e quindi poco inquinamento. Ma non è cosi. L’Italia è prima per violazioni di norme comunitarie in materia ambientale in tutti i settori. E’ in clamoroso ritardo su tutte le bonifiche, perché ci sono i soldi per costruire autostrade inutili attraverso generose prebende ai concessionari, ma non per finanziare la faticosa ripulitura del suolo in molte zone del paese. L’Italia si è appena beccata dalla UE una mega-condanna a sanzioni di 120.000 euro al giorno e una multa forfettaria di 20 milioni di euro, perché dal 2007 fa poco o nulla per rimediare alle conseguenze sulla salute dei rifiuti in Campania; questa nuova decisione della Corte UE segue di poco la condanna a pagare 40 milioni di euro per le discariche illegali[3], la più importante nella storia del diritto europeo. Ecco perché a mio modesto avviso il discorso dell’ILVA “progressivamente risanata” che non deve pagare oggi gli errori del passato non regge o almeno non regge ancora. Per difendere i presidi industriali nel Mezzogiorno (e non solo) bisogna accettare di cambiare modello industriale; bisogna ripulire i danni del passato che hanno ancora conseguenze devastanti e ristabilire la qualità della vita minima delle persone; e bisogna smettere di sottovalutare il fatto che anche questa scelta può tradursi in nuovo business e occupazione.
[1] http://www.adnkronos.com/sostenibilita/risorse/2015/02/26/anno-della-ripresa-verde-per-economia-consumi-italiani_qH34vD8lNrCzl7OA5XUmxM.html
[2] Dati 2012, « Institute for sustainable future », Australia
[3]http://napoli.repubblica.it/cronaca/2015/07/16/news/rifiuti_campania_corte_ue_condanna_italia_20_mln_piu_120mila_euro-119217183/