Ilva: il “lavoro sporco” degli ultimi tre governi
Articolo di Roberto Della Seta e Francesco Ferrante su Huffington Post –
L’Ilva di Taranto non è più soltanto il massimo simbolo di un modello di industria – lo stesso di Porto Marghera o di Bagnoli – che ha praticato per decenni il sistematico disprezzo di ogni garanzia e protezione a difesa dell’ambiente, della salute dei lavoratori e di tutti i cittadini. Oggi è anche di peggio: è il terreno di sperimentazione di leggi che tale disprezzo elevano a norma, a principio giuridico, affermando l’idea che l’interesse di un’impresa debba venire prima della sicurezza del lavoro e della tutela della salute pubblica.
La prova di questa scelta è nella sequenza via via più inquietante di decreti varati negli ultimi anni dai governi Monti, Letta, ora Renzi per impedire alla magistratura l’applicazione all’acciaieria di Taranto di un persino banale precetto costituzionale: nessun interesse privato per quanto economicamente rilevante può contare di più del diritto dei cittadini a un ambiente sano, a un’aria respirabile.
Su questa strada, il governo Renzi continua nel “lavoro sporco” cominciato dai governi che l’hanno preceduto. Con due decreti emanati in pochi mesi, ha stabilito che l’Ilva può produrre senza bisogno di rispettare per intero le prescrizioni del Ministero dell’Ambiente per il risanamento e la bonifica ambientali del sito; che il commissario Ilva gode di una sorta di “guarentigia” che lo rende immune da eventuali provvedimenti giudiziari; che nel caso in cui la magistratura disponga il sequestro parziale o totale dello stabilimento ravvisando situazioni di grave pericolo per la sicurezza dei lavoratori, l’attività produttiva può proseguire ugualmente.
A Taranto, come mostrano consolidate ricerche epidemiologiche, in tanti si ammalano e muoiono per le sostanze tossiche in eccesso rispetto ad ogni standard di legge che dalle ciminiere come dai depositi di minerali piovono sull’area occupata dall’Ilva e su tutta la città. Anche la sicurezza del lavoro all’Ilva è tutt’altro che garantita, come tragicamente dimostrato dall’incidente dell’8 giugno scorso all’altoforno 2 costato la vita all’operaio Alessandro Morricella, che ha indotto la Procura di Taranto ad aprire un’inchiesta contro i responsabili dell’azienda per assenza dei requisiti minimi di sicurezza e ha portato al sequestro cautelativo dell’altoforno. D’altronde non ci si può stupire, visto che quella è la stessa fabbrica dove per decenni il “padrone” – prima l’Italsider, poi la famiglia Riva – ha fatto letteralmente i suoi comodi infischiandosene di leggi e regolamento, e sfruttando le vaste complicità istituzionali e politiche che oggi conosciamo grazie alle inchieste della magistratura.
Per il governo Renzi questi non sono problemi, o per lo meno sono problemi più piccoli dell’alto costo economico di un intervento rapido ed integrale di messa in sicurezza dell’impianto in tema sia di impatto inquinante sia di sicurezza del lavoro. Commissariare l’Ilva togliendo di mezzo i Riva – che restano i principali responsabili del disastro ambientale e sociale tarantino – doveva essere il primo passo per riconciliare a Taranto lavoro, salute, legalità, invece si continua a procedere per toppe successive, senza vedere che ogni toppa non solo non aiuta a risolvere il problema ma stabilisce un precedente sempre più grave.
Finora, va detto, l’ultima “proposta indecente” sull’Ilva dell’attuale esecutivo non ha suscitato grandi proteste. Ad opporsi sono rimasti quasi soltanto i magistrati: con il tribunale di Taranto che ha impugnato davanti alla Corte Costituzionale la norma “anti-sequestro” e con il segretario generale dell’Associazione nazionale magistrati Maurizio Carbone, secondo il quale la legislazione d’emergenza sull’Ilva è segnata da “una netta prevalenza del diritto all’impresa rispetto a diritti, quali quello all’ambiente e alla sicurezza sul lavoro, che invece sembrano essere considerati come un mero ostacolo alla produzione”. Così facendo, aggiunge Carbone, il legislatore rovescia il dettato costituzionale, che assegna una netta prevalenza alla salute e alla sicurezza sociale rispetto alla libertà d’impresa.
A parte la magistratura e poche altre voci isolate, tutti gli altri “attori” della vicenda Ilva – sindacato compreso – hanno accolto quest’ultimo decreto del governo con un silenzio assordante. O meglio: tutti meno uno: il vertice di Confindustria. Ecco, all’associazione degli industriali e in particolare al suo presidente Giorgio Squinzi la scelta di privilegiare in casi come questo gli interessi delle imprese piace moltissimo: “Il perno su cui far leva per ricomporre l’equilibrio tra giustizia ed economia – ha dichiarato Squinzi in una lettera al Corriere della Sera – è bilanciare gli interessi”. Fedele a questo stesso criterio, il presidente di Confindustria assegna i voti anche ad altri recenti provvedimenti legislativi, bocciando per esempio senza appello la legge che finalmente ha introdotto nel codice penale gli ecoreati. E intanto sempre da Confindustria esultano per la norma contenuta nel disegno di legge del governo sulla semplificazione amministrativa che prevede il “tacito consenso” per le procedure di autorizzazione edilizia, una vera manna per cementificatori di ogni risma.
Il pericolo più subdolo insito in queste posizioni del governo, di Confindustria e della stragrande maggioranza dei commentatori, sta nel fatto che in generale vengono giustificate con l’esigenza di superare le infinite pastoie burocratiche da cui cittadini e imprese non riescono a districarsi. Un capolavoro; invece di semplificare le norme, modernizzare la macchina burocratica, penalizzare chi nella pubblica amministrazione lavora poco e male, si tolgono i controlli!
Il presidente emerito della Corte Costituzionale Giovanni Maria Flick, non esattamente un ambientalista e tanto meno un nemico delle imprese, ha commentato sempre sul Corriere della Sera che simili posizioni ignorano del tutto l’articolo 41 della Costituzione: “L’iniziativa economica – ricorda Flick – non può svolgersi se reca danni a libertà, sicurezza e dignità umana”.
L’accoppiata Renzi-Squinzi non la pensa così: loro forse s’illudono di proteggere in questo modo il futuro dell’Ilva a Taranto, nella realtà non fanno che aggravare il conflitto tra questa immensa “fabbrica dei veleni” e la città che la ospita. Ci sarebbe un unico modo per salvare il lavoro delle migliaia di operai dell’Ilva: costringere l’azienda a mettersi in regola con le leggi che in Italia e in tutta Europa pongono limiti invalicabili all’inquinamento e obbligano a garantire la sicurezza del lavoro. Invece con il “lavoro sporco” che prosegue in queste settimane – legalizzare per decreto un’industria che opera fuorilegge – non solo si colpiscono diritti fondamentali delle persone, ma si accelera la corsa verso la definitiva chiusura dell’Ilva. Poi quando questo accadrà, si può essere certi che chi oggi lavora per un’Ilva sottratta a leggi e controlli, libera di inquinare impunemente, alzerà il solito stucchevole coro contro magistrati e ambientalisti.