Il Belgio un paese fallito? No, distratto e libero in un’Europa divisa
Articolo di Monica Frassoni su Huffington Post –
Oggi sono tornata a Bruxelles, a una settimana dagli eventi tragici del 22 marzo. Mi assale all’improvviso una forte inquietudine, una inaspettata angoscia, forse la consapevolezza molto concreta e “personale” che troverò una città nella quale tre “miserabili cretini”, come li ha chiamati in una memorabile cronaca il commentatore francese Bernard Guetta, si sono fatti saltare in aria e hanno ucciso gente che ho probabilmente incrociato nei luoghi della mia quotidianità.
Non condivido però i commenti che parlano del Belgio come di uno “Stato fallito” e considero esagerate le valutazioni su Molenbeek o Schaerbeek, (dove ho vissuto 20 dei miei quasi 30 anni di vita brussellese), definiti antri di folle di estremisti da molti politici e commentatori che non vi hanno mai messo piede.
Va tutto bene allora, ed è tutta colpa dei Salvini d’Europa e dei media? Certo che no. Se il Belgio non è uno Stato fallito è sicuramente uno Stato “distratto” e diviso dalla stucchevole e noiosissima disputa fra fiamminghi e francofoni, che ha fatto e fa perdere tempo ed energia su cose assurde come la lingua parlata dai bambini durante la ricreazione o la lingua delle circolari amministrative nei comuni intorno a Bruxelles. Per anni il mondo politico si è concentrato su complicatissime riforme dello Stato, che hanno reso spesso le decisioni più difficili: basti pensare che accade di frequente che i rappresentanti del governo belga al Consiglio dei ministri della UE si debbano astenere, perché le tre regioni non trovano un accordo fra loro. Questa situazione non ha risparmiato le forze di sicurezza, anche se dopo i tristissimi fatti legati alle azioni della rete dei pedofili assassini di qualche anno fa, c’era già stata una vasta riforma, riforma oggi senz’altro da rivedere.
Personalmente, credo che più che un problema istituzionale siamo di fronte alla grave sottovalutazione della minaccia e di ritardo nella comprensione del pericolo rappresentato da ex piccoli delinquenti che si radicalizzano in prigione e vanno e vengono dalla Siria. A livello poi delle comunità e dei quartieri a forte presenza musulmana, per molto tempo c’è stata una scarsa attenzione a quello che succedeva nelle moschee, nelle prigioni e soprattutto nelle scuole islamiche, cresciute anche grazie ai soldi dei nostri “alleati” sauditi: questo, a onor del vero, non solo per “distrazione”, ma anche in virtù del principio costituzionale della libertà di insegnamento, che dà ai genitori una vasta scelta di orientamento scolastico, filosofico e religioso; in nome della stessa libertà, il Belgio è stato uno dei primi paesi nel quale i gay si sono potuti sposare, dove la dolce morte è stata accettata dopo dibattiti difficili, ma anche rispettosi delle scelte di tutti e privi dei toni da crociata nostrani; ed è uno Stato nel quale la naturalizzazione è abbastanza semplice e i residenti cittadini di paesi terzi votano alle elezioni locali. Io stessa sono stata eletta dai verdi al Parlamento europeo nel 1999 come non belga e con una valanga di preferenze, dovute soprattutto al fatto di essere la prima donna in lista e avere un nome “esotico”.
Questa complessa realtà ha portato al successo dell’integrazione nella gestione locale e in generale nella vita politica ed economica di moltissime persone (basta guardare ai nomi anche loro “esotici” di numerosi ministri, amministratori locali, professori, dirigenti), a una situazione molto meno esplosiva che nelle banlieues francesi e all’assenza di veri e propri “ghetti”; in questi mesi si cominciava anche a notare un certo miglioramento dell’occupazione dovuto anche al buon funzionamento di meccanismi come la “garanzia giovani” o altri meccanismi di integrazione e sostegno dei disoccupati. Ma permangono situazioni di esclusione e comunità relativamente impermeabili al mondo esterno: realtà peraltro non esclusiva dei migranti arrivati a partire dagli anni ’70 dal Maghreb o dalla Turchia.
I tagli alla spesa applicati per anni hanno reso meno capillare il lavoro degli operatori sociali, portatori di progetti innovativi e “premonitori” contro l’emarginazione e l’abbandono scolastico dei giovani o contro l’esclusione delle donne. Questo approccio portato avanti con entusiasmo dal governo di destra del liberale Charles Michel e dei nazionalisti fiamminghi dell’NVA, sta colpendo peraltro anche i cittadini comunitari in arrivo in Belgio; varie migliaia di europei, tra i quali centinaia di italiani, sono stati espulsi a causa di un’interpretazione secondo me abusiva delle direttive europee sul welfare, contro la quale abbiamo recentemente fatto ricorso alla UE.
Ma al di là della situazione specifica del Belgio, la difficoltà per tutti è proprio quella di dover attuare strategie e metodi specifici per la situazione locale, simili a quelli usati in Italia durante gli anni di piombo o nella lotta alla mafia, e allo stesso tempo smantellare un’organizzazione leggera, ricca, capace di agire sul piano sovranazionale e sulla base di motivazioni nelle quali l’elemento religioso si mischia con quello identitario e criminale. Per questo l’idea di chiudere i confini per fermare i terroristi non sta proprio in piedi. Nuove frontiere e muri complicano la battaglia contro terroristi e criminali, minano la fiducia tra gli europei, contribuiscono a respingere inutilmente chi ha bisogno di aiuto. È necessario muoverci su due fronti contemporaneamente: la capacità della UE e di ogni suo membro di decidere ed applicare azioni comuni efficaci, che ci rendano tutti più sicuri, dipende da una radicale e visibile discontinuità rispetto alla situazione attuale nella testa oltre che nelle azioni di dirigenti e opinione pubblica.
Ci vuole certo un forte coordinamento delle polizie, organi giudiziari, ministeri degli interni, ma anche il rafforzamento degli organi europei in modo che possano agire senza chiedere il permesso a 28 autorità e siano sottoposti a controllo democratico a livello europeo; ma oltre all’azione per acciuffare i terroristi, bisogna che la Commissione riprenda la proposta per una redistribuzione obbligatoria di rifugiati e richiedenti asilo accompagnata da sanzioni. È proprio il sistema che il Belgio ha messo in atto: se città o villaggi rifiutano i rifugiati devono pagare una “multa” giornaliera a persona. Se li accolgono, ricevono un contributo calcolato sul numero dei rifugiati.
In secondo luogo, sono d’accordo con Saviano; la nostra società può e deve organizzare l’accoglienza di persone in difficoltà in parte a casa nostra e in parte aiutando i paesi dove molti – la maggior parte – si trovano e rimarranno, senza che questo comporti i drammi e addirittura il panico che vediamo spuntare ovunque. Che senso ha per esempio lasciare per settimane al freddo a Idomeni una signora con sua figlia o addirittura rispedirla in Turchia, se il marito è in Germania come rifugiato? È come se noi stessi non avessimo fiducia nella forza delle nostre società e delle nostre culture! È possibile attrezzarsi e affrontare un fenomeno che sta diventando strutturale e che deve essere governato, non respinto a priori; e invece stiamo sbolognando la patata bollente al despota di turno, illudendoci di poter mettere tutti in campi di detenzione, magari al confine fra la Siria e la Turchia buttando via la chiave fino alla fine eventuale della guerra e mantenendo i numeri di coloro che possono (forse) essere trasferiti in Europa così bassi da continuare a foraggiare il lucroso commercio di persone, che ha fruttato ai pirati più di 5 miliardi di euro o addirittura 10 secondo alcune stime.
In questo periodo così buio per tante persone innocenti, prima lo faremo, meno conflitti, divisioni e violenze affronteremo in futuro. Alla fine, accogliere potrebbe costare meno economicamente e socialmente che illudersi di proteggersi con nuovi muri e rivendicare una purezza etnica e religiosa che nelle nostre società non esiste più da tempo. Ma nulla di tutto questo potrà funzionare se non si lancia una operazione “verità” anche sui media, tra le forze politiche e sociali, tra le persone; un’operazione verità che non è propaganda “buonista”, ma la riscoperta che questa nostra Europa e noi vecchi e nuovi cittadini possiamo affrontare e sconfiggere chi ci vuole deboli e divisi ritrovando quei valori comuni che, lungi dall’essere vuota retorica, riacquistano oggi tutto il loro significato concreto e operativo: Liberté, egalite’, fraternite’.