Cinquestelle impresentabili, ma il decreto Bankitalia è una mezza “porcata”

huff_postArticolo di Roberto Della Seta e Francesco Ferrante su Huffington Post – 

Neppure in politica il fine giustifica i mezzi. Tanto meno li giustifica quando il fine è un pretesto e i mezzi sono il cuore di una scelta, di una strategia deliberate.

Per questo la bagarre scatenata alla Camera dai Cinquestelle – sebbene, come hanno ricordato diversi commentatori, non proprio un inedito nella storia del Parlamento repubblicano – deve indignare. Fanno schifo i deliri sessisti dal deputato De Rosa al blog di Grillo, fanno schifo gli slogan fascistoidi e l’armamentario da basso populismo messi in mostra da parecchi “portavoce” Cinquestelle, palesemente inadeguati – anche loro, come molti dei loro bersagli – al ruolo che gli è capitato di occupare nelle istituzioni.

Ma se i “grillini” hanno allestito una farsa impresentabile, questo non basta a riabilitare l’oggetto, sia pure strumentale, della loro sceneggiata: il decreto Imu-Bankitalia nella parte che riguarda la nuova governance della nostra banca centrale.

Per la forma utilizzata – la decretazione d’urgenza – e per molti suoi contenuti, questa presunta riforma è in effetti una gran “porcata”.

Come ha scritto il professor Angelo Baglioni su lavoce.info, è quanto mai discutibile che la scelta quasi epocale di trasformare la Banca d’Italia, oggi posseduta dalle banche, in una “public company” sia stata fatta per decreto, senza il minimo dibattito pubblico e cestinando una legge del 2005, mai attuata, che prevedeva il trasferimento allo Stato della proprietà dell’Istituto. Detto che in quasi tutte le banche centrali dei paesi europei il capitale è a larga maggioranza in mano pubblica, comunque non si vede dove sia in questo caso l’urgenza, criterio irrinunciabile per ogni decreto, dopo 80 anni dalla nascita di Bankitalia e dopo 8 di mancata applicazione della legge che ne prescriveva la pubblicizzazione. Da notare tra l’altro che persino la Bce ha avuto da ridire: è stata consultata solo all’ultimo, e nel suo parere sul decreto – richiesto 3 giorni prima che il testo venisse approvato dal Consiglio dei Ministri – ha richiamato esplicitamente il Governo italiano al rispetto della procedura di consultazione prevista dai Trattati europei.

Insomma. Nessun dubbio che il modello attuale di governance della Banca d’Italia – con i vigilati, cioè le banche, che sono anche i proprietari – vada superato. Ma la modalità scelta per attuare un così rilevante cambiamento, e la direzione che si è scelta – “public company” invece che pubblicizzazione – lasciano il campo a legittime obiezioni.

Il merito del decreto è anch’esso decisamente opaco. Regalo ad alcune grandi banche, hanno urlato i “grillini”: è così? In buona parte, inutile girarci intorno, è così. Il capitale di Bankitalia viene rivalutato da 156 mila euro (il valore originario del 1936, rimasto fermo da allora: un’altra bella “dimenticanza” delle nostre classi dirigenti) a 7 miliardi e mezzo, utilizzando le riserve dell’Istituto. Certo, le banche azioniste – a cominciare da Banca Intesa e Unicredit che da sole detengono oltre il 46% – dovranno pagare oltre un miliardo di imposte sulle plusvalenze realizzate grazie alla rivalutazione delle loro quote (soldi che serviranno a coprire il mancato introito della seconda rata Imu dell’anno scorso e che spiegano l’accoppiata in un unico decreto di due materie, tasse sulla casa e Banca d’Italia, tra loro del tutto estranee).

Ma intanto questo onere immediato verrà recuperato in pochi anni grazie all’aumento della soglia massima di remunerazione del capitale da esse detenuto; e poi – ecco un primo regalo – le banche azioniste potranno ingrassare con le quote rivalutate i propri bilanci patrimoniali. Non basta. Il decreto prevede infatti che nessun azionista potrà detenere quote superiori al 3% e che Bankitalia potrà (forse di fatto “dovrà”, se vale lo sbarramento del 3%) acquistare dagli azionisti “in eccesso” le partecipazioni che superano tale soglia. Sempre Baglioni calcola in più di 3 miliardi e mezzo la somma che Banca Intesa e Unicredit potrebbero ricavare dall’operazione.

Dicono i sostenitori del decreto: non c’è regalo alle banche perché il “regalo” non costa nulla allo Stato. Bizzarro ragionamento: se camminando per la strada troviamo un portafoglio pieno di soldi e ne “regaliamo” il contenuto a un amico, a noi il gesto non costa nulla ma per lui è un gran bel regalo (l’esempio non è nostro ma di Andrea Baranes di Banca Etica). Come si capisce, chi dice che il decreto Bankitalia non avvantaggia le grandi banche dice, nella più generosa delle ipotesi, meno di mezza verità. Ma il governo Letta-Alfano è così:molto largo nelle intese politiche, assai più selettivo negli interessi da salvaguardare.