Carbon tax: per l’ambiente, per il lavoro #primadeldiluvio
Continua la nostra rassegna #primadeldiluvio, quello vero, per la costruzione di un programma di governo che concili crescita economica e tutela del mondo in cui viviamo.
L’adozione di una carbon tax è stata da lungo tempo suggerita per interiorizzare e mitigare parte degli impatti ambientali e sanitari legati all’impiego dei combustibili fossili. L’introduzione di una fiscalità ambientale, era stata prevista anche in Italia con la ‘delega fiscale’ del 2012, al fine di ridurre progressivamente la tassazione dal lavoro accrescendo quella sulle risorse naturali ed energetiche in modo da rendere più efficiente l’economia. Una norma che non è mai stata approvata, malgrado una carbon tax avesse già fatto una effimera comparsa alla fine degli anni Novanta.
Questo strumento fiscale è applicato con successo in Canada e in diversi paesi europei, dagli UK alla Svizzera. La Svezia, paese che l’ha introdotta nel 1991, ha alzato progressivamente il suo valore fino a 136 $/t ottenendo tra il 1990 e il 2013 una riduzione del 22% delle emissioni a fronte di un aumento del Pil del 58%. Considerato l’attuale basso prezzo dei combustibili fossili, molte istituzioni, dalla Banca Mondiale all’Agenzia Internazionale dell’Energia, hanno caldamente suggerito l’opportunità di tassare le emissioni di CO2.
In Europa non si è però mai riusciti ad approvare uno schema valido per tutti i paesi, anche per il timore di interagire con il fallimentare meccanismo dell’ETS, Emissions Trading System, predisposto per contenere la CO2 delle industrie energivore.
La novità di questi giorni viene, inaspettatamente, da oltreoceano. Gli Stati Uniti di Trump hanno visto infatti l’entrata in campo di personaggi come Schultz, Baker e Paulson – ministri del Tesoro di Nixon, Reagan e Bush – con la proposta di una carbon tax che parte da 40 $/t per poi crescere negli anni ottenendo il risultato di ridurre significativamente le emissioni, sostenere l’economia e staccare una cedola annuale di 2.000 $ per ogni famiglia.
E veniamo all’Italia, che si trova oggi alle prese con la necessità di rispettare i parametri sul deficit. Il governo pensa di incrementare le entrate per 2,5 miliardi puntando in larga parte su un aumento delle accise sui carburanti. In realtà, questa sarebbe l’occasione giusta per una revisione della fiscalità che coinvolga tutti i combustibili fossili utilizzati nel paese, includendo anche la generazione elettrica, favorendo quindi gli interventi di efficienza delle rinnovabili e, indirettamente, del metano. Considerando infatti che il prezzo della CO2 nell’ambito dell’ETS è sceso a 5 €/t, è evidente che questo strumento non è assolutamente in grado di fornire segnali di mercato, con una decisa penalizzazione degli efficientissimi impianti a gas a ciclo combinato rispetto alle centrali a carbone.
Per quanto riguarda le industrie energivore, va appoggiata la richiesta inviata da più parti a Bruxelles (ultima quella del produttore di acciaio ArcelorMittal) di introdurre una tassa sui beni importati in Europa in relazione al contenuto di carbonio. Una Border Tax di questo tipo, contenuta anche nella citata proposta degli ex ministri del Tesoro Usa, andrebbe mantenuta fino all’introduzione di una carbon tax a livello mondiale.
Ma vediamo quali sono le cifre in gioco e le implicazioni in Italia.
Ipotizzando un livello di 20 €/t, le entrate sarebbero dell’ordine di 8 miliardi, una cifra che consentirebbe di far fronte agli impegni europei, di tagliare del 10% le bollette elettriche grazie ad un alleggerimento della componente A3 e di ridurre il costo del lavoro.
Sul versate dei carburanti questo livello di carbon tax comporterebbe un incremento di quasi 5 centesimi al litro. L’aumento potrebbe essere spalmato in maniera differenziata toccando soprattutto il diesel, che attualmente gode di un vantaggio di 17 centesimi sulla benzina. Un riallineamento in questa direzione è già in atto nel Regno Unito e in Belgio e, dopo lo scandalo del Dieselgate, altri paesi lo stanno prendendo in considerazione.
Per altro, si potrebbe pensare di utilizzare una piccola parte della quota della carbon tax “super ambientalizzata” sui carburanti per far finalmente decollare la mobilità elettrica, ferma alla misera soglia di 1.400 auto vendute nel 2016. Utilizzando solo un decimo di queste entrate si potrebbe infatti moltiplicare per 20 volte l’acquisto incentivato di veicoli elettrici nel 2018, per poi arrivare in 5 anni ad un parco elettrico di mezzo milione di veicoli con incentivi decrescenti grazie al previsto rapido calo del prezzo degli accumuli.
A queste risorse, peraltro, potrebbero aggiungersi altri proventi. Un miliardo €/a sarebbe ricavabile con un innalzamento delle royalties legate all’estrazione di greggio e metano nel nostro paese (attualmente si incassano solo 350 milioni €) e ulteriori entrate sarebbero reperibili grazie all’eliminazione di una serie di sussidi di cui godono alcune categorie di utilizzatori di combustibili fossili e che potrebbero essere anch’esse utilizzate per ridurre il costo del lavoro.
Insomma, un po’ di coraggio da parte del governo non guasterebbe. Anche perché è entrato in vigore l’Accordo mondiale sul Clima, ma nel nostro paese è come se non fosse successo niente.
Gianni Silvestrini
Direttore scientifico Kyoto Club