Accordo commerciale con il Canada: la battaglia del Lilliput vallone e le sue ragioni
Articolo di Monica Frassoni su Huffington Post –
Anche se in Italia se ne parla poco e con la superficiale condiscendenza che si dà a una stranezza folcloristica che ci distrae dai nostri guai, la decisione del governo della Vallonia di bloccare la ratifica del Belgio e quindi della UE del Trattato commerciale con il Canada offre occasioni molto interessanti di riflessione.
Prima di tutto i fatti. La politica commerciale è una delle poche competenze esclusive dell’Unione europea. Questo significa che il processo decisionale si potrebbe concludere con la semplice ratifica del Parlamento europeo e l’accordo degli Stati membri riuniti nel Consiglio, dopo che la Commissione europea, sulla base di un mandato conferito dal Consiglio e la cui trasparenze è un tema di conflitto con il Parlamento e la società civile aperto da anni, ha negoziato a nome di tutti.
I problemi cominciano quando, come nel caso del Trattato CETA si va al di là della materia com-merciale e si toccano anche competenze condivise con gli Stati membri.
In quel caso, c’è bisogno dell’accordo unanime di tutti i Parlamenti nazionali e quindi, si dipende dagli ordinamenti interni di ogni Stato. Nel caso del Belgio, per ragioni che vanno dalla fregola regionalista dei fiamminghi alla volontà dei Valloni di continuare a vendere armi senza dare conto a nessuno, la competenza commerciale riviene alle regioni, dopo una riforma risalente ormai a parecchi anni fa.
Il Belgio non è un paese federale nel senso che non dispone di un meccanismo centrale di soluzione dei conflitti fra le regioni. È questo il motivo per il quale, nel caso in cui le regioni divergano su un certo tema di competenza europea, il rappresentante belga al Consiglio non può che astenersi.
E in questo periodo, nel quale a governi centrale e fiammingo di destra si oppongono governi brussellese e vallone di centro sinistra, il conflitto è piuttosto frequente. Il governo vallone, dunque, esercita puramente e semplicemente un potere di cui dispone. E che deriva dall’illusione europea che l’obbligo dell’unanimità sia una procedura democratica e non una delle cause più gravi del blocco sistematico del processo decisionale della UE e dall’errore della Commissione e degli Stati membri di dare al Trattato CETA una portata più ampia che quella commerciale.
A differenza di molti parla-menti, peraltro, l’assemblea della Vallonia ha lavorato alacremente e approfonditamente sul Trattato CETA, che è in tutto e per tutto simile al famigerato TTIP, quasi caduto grazie alla vasta mobilitazione sociale transatlantica a all’opposizione tra gli altri del governo francese e tedesco.
Quindi tutto si può dire tranne che si tratti di una decisione politicante e superficiale. I punti problematici del Trattato sono noti: innanzitutto, il testo completo dell’accordo è stato rivelato solo a negoziati conclusi; quindi prendere o lasciare. Non esattamente un modo saggio e trasparente di agire soprattutto in questi tempi di diffidenza verso il potere.
Poi la famosa clausola ISDS, che permette ai privati di ricorrere contro decisioni degli Stati contrarie ai loro interessi presso un tribunale speciale, che è accessibile solo per le multinazionali. Infine, il rischio che con il principio del reciproco riconoscimento, standard ambientali, sociali, di sicurezza alimentare possano essere attaccati e’ reale.
In Italia, purtroppo, siamo rimasti fra i pochi pasdaran dell’ideologia di un libero commercio che non è per nulla libero, ma che è invece potentemente sbilanciato a favore delle grandi multinazionali e dei loro interessi; e che falsamente considera che l’unica regola che deve vivere nel commercio è quella del prezzo, e tanti saluti alle specificità culturali e territoriali, alla qualità, alla scelta, agli standards, alla preferenza del consumatore.
Personalmente, mi considero una liberale e libertaria e non sono per nulla contraria al commercio, specialmente con paesi amici come il Canada o gli Stati Uniti. Anzi. Però mi sembra che l’insistenza sul tema della risoluzione delle dispute tra Stati e investitori attraverso dei panel appositi e non con la giustizia ordinaria sia foriera di guai assoluta-mente non necessari in questi tempi così difficili.
Per una volta, anzi per adesso l’unica, sono d’accordo con il Presidente del Consiglio europeo Donald Tusk; anche se alla fine la Vallonia si piegasse “In verità, il problema va oltre CETA: se non si è in grado di convincere i cittadini che gli accordi commerciali sono negoziati nel loro interesse, non riusciremo a costruire un reale appoggio popolare per il libero scambio e questo potrebbe essere il nostro ultimo accordo commerciale”.
È proprio così. Quindi è bene iniziare a rendersi conto che in questa epoca di grandi cambiamenti e opportunità, non si può continuare a fare come se fossimo ancora negli anni ’80. Anche il commercio fra gli Stati deve tenere conto dei limiti del pianeta, degli obblighi in materia di welfare e reddito dei lavoratori, degli standard di trasparenza, salute e sicurezza che negli anni si sono venuti affermando e, pur nel rispetto degli accordi con gli investitori privati, della necessità di garantire, almeno fra democrazie che pensano di essere mature come le nostre, che le dispute vengano risolte non da tribunali paralleli composti da businessmen, ma da giudici ordinari sottomessi alle leggi dei loro Paesi.
Comunque vada il braccio di ferro del Lilliput Vallone, lo shock sarà stato utile e forse aprirà la strada all’unica soluzione possibile e cioè il rilancio del “libero” commercio” puntando produzioni “sostenibili” e di qualità, rinunciando a negoziati segreti fra funzionari e lobbisti e aprendo porte e finestre allo sguardo dell’opinione pubblica e della libera stampa.