Il Pd è fallito. “Quel” Partito democratico preconizzato da Prodi con l’Ulivo e tenuto a battesimo da Veltroni al Lingotto non esiste più, e se mai dovesse risuscitare (forse ce ne sarebbe bisogno) dovrà accadere altrove.
Il fu Pd appare prigioniero del livore del suo (tuttora) capo, che lo costringe a attendere immobile una rivincita che non ci sarà. Come è potuto accadere? Come è successo che in appena dieci anni si sia cancellata, insieme a milioni di voti espressione di un consenso largo e vitale nella società, anche l’intuizione quasi profetica da cui il Pd era nato: l’idea, oggi conclamata dalla crisi verticale dei socialisti in tutta Europa, che la sinistra europea per avere ancora un senso e un futuro debba costruirsi una nuova “cassetta degli attrezzi” adatta a affrontare i problemi e le sfide inediti del nuovo millennio, dalla globalizzazione che riduce i poveri in tutto il mondo ma li fa crescere a casa nostra, ai cambiamenti climatici che impongono un approccio radicalmente innovativo alla dimensione dell’agire economico?
Anche chi scrive ha le sue colpe: alla fine del 2012 fummo tra i pochissimi parlamentari del Pd (in Senato meno di 10 su un gruppo di oltre 100) che sostennero Renzi nella sua prima corsa a segretario del Pd. Vedevamo nella sua energia e nella carica innovativa che sembrava esprimere l’ultima occasione per rivitalizzare un progetto politico che dopo la fine prematura della segreteria Veltroni si era avvitato su se stesso.
Non abbiamo capito che la “rottamazione” invocata da Renzi era culturalmente vuota: per dire, il tasso di attenzione alla questione ambientale era infinitesimo nel Pd di Bersani ed è rimasto infinitesimo nel Pd renziano.
Sì, decisamente ci eravamo sbagliati: Renzi non aveva idea di come fare del Pd una sinistra più contemporanea, si è rivelato abbondantemente al di sotto della sfida che aveva davanti. Ha confuso la leadership con l’obiettivo di cancellare ogni intermediazione tra leader e “popolo”, ha finito di “sciogliere” la vecchia forma-partito senza sostituirla con niente altro, per puntellare il suo consenso interno si è appoggiato ai peggiori potentati locali della vecchia sinistra. Risultato? Un cupio dissolvi che ha portato il Pd da una sconfitta all’altra, fino all’attuale irrilevanza politica.
Eppure ci sarebbe bisogno come dell’aria di una forza politica moderna che si aggreghi in forme diverse da quelle novecentesche ma senza cadere nella trappola di una finta democrazia diretta in realtà governata da “uno che vale tutti”; avremmo bisogno come del pane di una sinistra che sappia affrontare la crisi del lavoro senza inseguire ricette del passato ma restando fedele alla “missione” di combattere le diseguaglianze, che sappia mettere al centro del suo impegno e della stessa ricerca di consenso la “ragione ecologica”.
Il Pd è fallito, le necessità storiche che dieci anni fa lo fecero nascere sono invece vivissime. Su di esse va costruito in fretta qualcosa di credibile e di solido per tanti che cercano una “bella politica”, che non hanno ancora mai votato, che non votano più, che per disperazione hanno votato altro. E anche per molti che nel Partito democratico avevano creduto.