Teniamoci lontani dall’agonia del Pd. Appunti verdi per una proposta politica vincente
Articolo di Monica Frassoni su Huffington Post –
In questo momento di fermento nel fronte “progressista” della politica italiana, vorrei condividere alcune riflessioni, che partono da un punto di vista esplicitamente ecologista, dimensione che temo sia ancora abbastanza defilata nel dibattito in corso.
Non sono solita usare toni drammatici, ma mi sembra chiaro che siamo in una situazione di allarme rosso per la nostra democrazia e società: crisi economica eterna, un territorio che si sbriciola per terremoti e incuria, i migranti a metà fra tentativi accoglienza, gelo, strutture inadeguate e regole contraddittorie, Trump al potere, Europa sbiadita, impopolare, ma sempre più necessaria, estremismi e ostilità in ascesa ovunque, anche nel discorso pubblico, nelle relazioni politiche, fra le persone.
È davvero urgente cambiare i rapporti di forza, politici, sociali, culturali, in modo rumoroso e visibile, perché può crollare tutto; dal mio osservatorio brussellese, io ne sono così acutamente cosciente, da trovarmi spesso a riflettere sul fatto che le nostre battaglie specifiche, su energia, ambiente, immigrazione, lavoro, sembrano quasi dei dettagli di fronte alla potenza distruttiva di opzioni politiche che ormai non sono più estreme e stanno diventando se non probabili almeno possibili.
Eppure ci sono talenti e idee pronte ad agire, lo vedo dappertutto, nel mio lavoro politico e associativo, nei miei contatti con il mondo economico più avanzato e in quello di chi si occupa di arte e cultura, a Bruxelles e in Italia, tra chi non riesce ad appassionarsi ne’ del falso nuovismo settario di gran parte dei 5Stelle, né in quello non meno divisivo di Renzi, né nelle capriole di una sinistra un po’ noiosa e annoiata, ora tentata perfino dalle sirene di un neo-nazionalismo antiquato; penso anche io che ci sia una certa volontà di reazione che va oltre la semplice “resistenza”, ma è ancora sparsa ed esitante.
Al di là delle preferenze personali, – (io per esempio sono impegnata in Green Italia e faccio parte dei Verdi italiani, collaboro da tempo con Possibile di Pippo Civati e con l’eurodeputata Elly Schlein, ma sono interessata anche al discorso aperto da Giuliano Pisapia) penso che sia urgente e necessario puntare su un metodo di mobilitazione diversificato, tollerante e gentile nei modi, ma molto preciso nei contenuti; non basta più mettere semplicemente insieme persone e gruppi diversi, allineati su una leadership più o meno carismatica, più o meno telegenica, più o meno di sinistra; e magari ostile ad altre leadership altrettanto telegeniche e progressiste.
Teniamoci anche lontani dall’agonia del Partito democratico, impresa che io ho sempre considerato una falsa buona idea: ci ha fatto perdere un buon decennio e ha smantellato, nella sua corsa dietro i vari leader verso un centro amorfo e senza qualità, quello che di forte e giusto c’era in entrambe le famiglie politiche d’origine, senza riuscire a integrare nulla del pensiero ecologista e radicale che tanto avrebbero potuto fare per renderlo più moderno e aperto. Avremo modo di vedere che cosa uscirà dalla battaglia interna, ma noi non siamo parte di quel tormento.
Non basta nemmeno appellarsi alla società civile come contraltare di una politica apparentemente esausta e continuare a rivendicarne la purezza. Mi pare che le vicissitudini del Movimento 5stelle stiano lì a dimostrare che la spinta antipolitica non aiuti a governare bene, anzi; conquistare il potere e governare sono due cose molto diverse e, da ecologista, vedo tutti i giorni che la distinzione e la lontananza fra politica e società civile alla fine danneggia le parti migliori di entrambe.
Ci sono a mio modo di vedere tre campi di azione prioritari per smuovere l’opinione pubblica intorno a un’agenda utile e positiva ed evitare di farci intrappolare nelle pastoie della discussione su chi guiderà la battaglia elettorale o questo o quel partitino. In tutti e tre, la dimensione ecologista è un elemento di forza, un apporto indispensabile.
Come ha ben dimostrato la débâcle renziana sulla (cattiva) riforma istituzionale, la priorità massima “is the economy, stupid”. È urgente dare una risposta chiara e innovativa allo stallo della nostra economia, una risposta che vada ben al di là della semplice difesa del “lavoro” in generale e ridefinisca le priorità e le caratteristiche concrete dell’azione per uscire dalla crisi.
Io credo sia necessario puntare “senza se e senza ma” sul “Green New Deal”, la trasformazione ecologica del nostro modello economico, che presuppone scelte di campo precise; e implica anche la fine della persistente servitù ai vari poteri economici speculativi, che hanno bloccato la crescita dell’Italia ben più che i problemi legati al costo del lavoro, dai concessionari parassiti, alle corporazioni, ai fautori delle grandi opere pubbliche inutili e mangiasoldi, dagli ex monopolisti energetici abbarbicati a vecchi privilegi che continuano ad alimentare il mito di rinnovabili ed efficienza come scelte marginali e costose, a quei gruppi industriali energivori che non si rendono conto che anche per loro la competitività passa attraverso investimenti nelle risorse umane e nell’innovazione verde, come ben dimostra l’ultimo rapporto Green Italia della Fondazione Symbola.
Bisogna entrare nel merito e nel dettaglio della proposta di politica industriale 4.0 del ministro Calenda, ponendo con forza il tema del superamento della “neutralità tecnologica” e dell’illusione che tutti i settori industriali, anche quelli meno produttivi, meno utili, meno pronti a cambiare, più fossili, possano e debbano essere sostenuti in eterno; possono invece essere accompagnati a una ristrutturazione o via via superati, a favore di quelli più in grado di trovare mercato in una società in profonda trasformazione, ma nella quale comunque c’è e ci sarà bisogno di acciaio, di macchinari, di prodotti alimentari, di energia etc., ma prodotti in modo diverso rispetto al ventesimo secolo.
Dobbiamo sconfiggere l’idea secondo la quale la tecnologia è destinata necessariamente a distruggere posti di lavoro, quando invece si può verificare esattamente il contrario, se si aiutano le persone a formarsi e adattarsi a circostanze nuove e non necessariamente peggiori. Dobbiamo poter sfidare anche parte del sindacato sulla necessità di discutere della riorganizzazione di formazione e tutele delle lavoratrici e dei lavoratori, senza più contrapporre lavoro, ambiente e salute.
In tempi di cambiamenti climatici e di disoccupazione di massa bisogna individuare e puntare esplicitamente sui settori più intensi in lavoro di qualità; sono anni che le Nazioni Unite ripetono che questi settori sono principalmente tre: l’educazione, la salute delle comunità e delle persone, la green economy, intesa nel suo senso più ampio di politiche economiche che pongono la sfida dei cambiamenti climatici e della scarsità delle risorse, della lotta all’inquinamento e della qualità della vita come punti di partenza per descrivere nuove attività economiche,- nell’industria, nell’agricoltura, nell’artigianato, nel turismo – nuove tecnologie, nuovi lavori.
La nostra proposta politica su questi temi deve diventare più aggressiva e visibile nel dibattito pubblico e integrare i vasti e complessi temi della migrazione economica e della mobilità sociale. Già oggi, l’Italia è la seconda Green economy dopo la Germania e il suo valore corrisponde a 190 Miliardi di euro, il 13% dell’economia nazionale.
È il primo paese per contributo del fotovoltaico al mix elettrico nazionale (8%); il suo sistema economico è il secondo per minore intensità di emissioni dopo la Francia (aiutatissima dal nucleare), è leader europeo nel riciclo industriale e nell’economia circolare, ma pochi notano l’importanza di questi dati, a partire da Confindustria. Il nostro governo, spinto da una rappresentanza industriale ancora troppo legata a vecchi riflessi “fossili” non fa che lamentarsi a Bruxelles per i limiti che deve rispettare sulle emissioni e ha ritardato fino all’ultimo, in compagnia della Polonia, l’accordo della Ue per la ratifica dell’Accordo di Parigi.
Oggi, il ruolo italiano nella discussione dell’importantissimo pacchetto legislativo su efficienza, rinnovabili, mercato elettrico, sistema Ets non è certo particolarmente costruttivo. L’Italia è anche il paese che nella disattenzione generale ha pagato già più di 100 milioni di euro di multe alla Ue perché dal 2007 non ha saputo risolvere il problema delle discariche abusive e dei rifiuti in Campania e sta per essere condannato a pagarne altri 180 all’anno (!!!) per l’incapacità dello Stato di fare ottemperare le regioni ai loro obblighi sul tema della depurazione delle acque reflue.
Mi sembra evidente che su questo enorme tema è necessario ambire a cambiare il dibattito nazionale, spostandolo su cosa è necessario produrre e su cosa investire le risorse pubbliche invece che sull’organizzazione del mercato del lavoro e dei suoi costi.
Il secondo campo di azione nel quale costruire contenuti più precisi e iniziative politiche è quello dell’Europa, che non è un concetto geografico, ma rappresenta valori come democrazia, solidarietà, apertura, tolleranza, eguaglianza nella diversità, rispetto dello stato di diritto; questi valori, garanti della pace in un continente dalla storia sanguinosa, sono messi a dura prova dall’incapacità collettiva di trovare soluzioni reali ai problemi delle persone, e questo è uno stimolo potente per il populismo autoritario, nazionalista e xenofobo che sta rialzando la testa.
L’Ue non è un luogo asettico fatto di burocrati grigi. Perché pensate che Antonio Tajani, persona perbene, ma pur sempre l’uomo di Berlusconi a Bruxelles, abbia vinto la presidenza dell’europarlamento o che ci ritroviamo con Donald Tusk e Jean-Claude Juncker ai vertici delle istituzioni Ue? Perché i partiti che li esprimono hanno vinto le elezioni nel 2014. Perché più della metà degli europei non è andata a votare, e tra loro, ahimè, anche un bel po’ di quella gente vicina a noi che fa le manifestazioni ed è disgustata dall’austerità “uber alles”.
A meno che Trump decida di schiacciare il bottone nucleare prima o Marine Le Pen riesca a convincere i suoi connazionali ad avviarsi verso “Frexit”, abbiamo circa due anni e mezzo per ribaltare e occupare l’Ue, dato che le prossime elezioni europee saranno nel 2019 e quella sarà un’occasione da non perdere per cambiare senso alla Ue. Non c’è molto tempo e questa è sempre di più una priorità anche per la politica nazionale.
Tutti a parole sono per un’altra Europa, e naturalmente anche noi. È per questo che dobbiamo applicare lo stesso rigore e precisione che molti di noi ecologisti hanno nel parlare di rifiuti, cambi climatici e protezione della flora e della fauna anche quando parliamo di che cosa diavolo vuole dire proporre “un’altra Europa”.
Innanzitutto significa rifiutare totalmente ogni opzione di uscita dall’euro o di delegittimazione di istituzioni comuni come la Commissione o della Banca centrale Europea, pur se non ci piacciono per niente molte delle loro scelte politiche. Per due motivi: la storia insegna che se spingi per rompere, alla fine fai il gioco di chi vuole distruggere più che di chi vuole costruire. La fine dell’euro non è una questione tecnica, a dispetto delle chiacchiere e dei numeri dei vari economisti pro-lira.
È la chiara scelta politica di uscire da un quadro di regole e di prospettiva comuni, come ben sanno Matteo Salvini e Marine Le Pen. In secondo luogo perché si tratta di un’azione di distrazione di massa rispetto ai veri nodi da affrontare, dall’economia, alle migrazioni, alle scelte energetiche, a quelle culturali: non si battono i cambiamenti climatici, non si limita l’influenza di Putin, non si assicura la fine di elusione ed evasione fiscale, non si salvano la nostra lingua e bellezza “rinchiudendosi” nei nostri confini. Questo sarebbe rinunciare del tutto alla nostra sovranità e legarsi mani e piedi al carro di chi ha dimensioni tali da poter contare nel mondo, la Cina, gli Usa, la Russia.
Dobbiamo invece puntare a creare anche in Italia luoghi di dibattito e iniziative nelle quali discutere delle politiche dell’Ue e cercare il consenso per cambiarle. Ci dobbiamo distinguere dai Grillini e dalla sinistra sovranista, ma anche non accontentarci di sventolare la bandiera dell’Europa, parlando di quanto è bello Erasmus. Insomma, non dobbiamo metterci in mode “destroy” né “defend” a tutti i costi; ma in mode “reset” e “riconquista” e fare di questo un elemento visibile della nostra proposta politica.
Noi sappiamo benissimo che, nonostante la propaganda, l’Ue non è solo patto di stabilità e parametri del deficit. Ed è importante notare che nonostante gli urli e gli strepiti di Renzi e Padoan contro l’austerità made in Berlino, in realtà il voto dell’Italia al Fondo Monetario sul penoso rigore da imporre ancora per i prossimi dieci anni alla Grecia è uguale identico a quello di Schauble, come fa opportunamente notare Federico Fubini sul Corriere della Sera. Quindi non c’è una vera discontinuità rispetto a una concezione ideologica e sbagliata e anche su questo è necessario fare molta chiarezza su quello che il nostro governo fa e dice davvero in sede internazionale ed europea.
Resta comunque ormai poco tempo per cambiare le politiche della Ue e superare allo stesso tempo le lentezze e le inefficienze del suo funzionamento: prima fra tutte la regola dell’unanimità, vero cancro che nessuna cura è riuscita ad eliminare e il cui mantenimento rappresenta il massimo successo dei britannici nella loro storia di membri riluttanti della Ue.
Sarà difficile, ma occorre tenere insieme e vincere su questi due indispensabili piani, quello politico e quello istituzionale: infatti, non possiamo oggi parlare di una riforma dei Trattati Ue, di un rilancio “costituente” senza allo stesso tempo avanzare con un’opera di riconquista culturale e politica, che mira a ricacciare nazionalismi ed estremismi di destra, ma anche a rinvigorire un europeismo a volte un po’ elitario e indifferente al merito delle scelte concrete: temo infatti che se oggi andassimo a votare per un’Assemblea costituente, rischieremmo di ritrovarci con maggioranze che potrebbero anche deliberare lo scioglimento della Ue!
Terzo cantiere urgente e forse più trasversale e complesso, è quello della qualità della democrazia, e in particolare del rispetto delle leggi, dell’ingerenza ancora troppo diffusa di gruppi criminali e forze corrotte, della garanzia dei diritti civili e individuali; e il vasto cantiere delle regole elettorali, dell’accesso al finanziamento della politica e ai media; questi ultimi due temi, cavalli di battaglia degli amici radicali, riacquistano una centralità indubbia in tempi nei quali permane e anzi prende nuove forme l’invadenza dei poteri economici e politici nell’informazione e nei quali impazza la “post-truth politics”, che non è certo nata con la Brexit o Trump.
Anzi, chiunque si sia mai occupato di “vertenze verdi” ha fatto per forza l’esperienza di una politica che decide senza tenere conto della realtà dei fatti e che porta il dibattito pubblico su vie rischiose e senza qualità!
La questione dell’accesso ai media e del finanziamento della politica non può perciò essere assente da uno sforzo programmatico che cerca di disegnare l’Italia del futuro, soprattutto perché nel nostro paese la possibilità di esistere nel dibattito pubblico dipende ancora moltissimo dalla televisione, anche se le “tribù” e le opinioni si forgiano anche sui social media e naturalmente con le risorse necessarie ad assicurare la presenza e l’azione sul territorio.
In anni passati, abbiamo perso la grande battaglia su una legislazione europea in materia di conflitto di interessi, pluralismo e concentrazione dei media, che ai tempi di Berlusconi aveva portato a un fiorire incessante di iniziativa in Italia e in Europa. Sono convinta che da quella sconfitta siano derivati frutti amarissimi, e non solo in materia di media e informazione, ma soprattutto per ciò che attiene alla capacità della Ue di rappresentare un baluardo contro le spinte autoritarie di alcuni dei suoi membri, e dell’Italia di liberarsi della commistione di interessi economici poco trasparenti.
I tempi che abbiamo davanti a noi sono difficili. Ma è anche giunto il momento di superare lo sbigottimento e il senso di impotenza di fronte a eventi che non avevamo previsto e che ci riportano a momenti lontani della nostra storia che eravamo sicuri di non dovere vivere: per fortuna, nulla è ancora veramente perduto.