Cop21: Italia in retromarcia
Articolo di Francesco Ferrante su QualEnergia –
Immaginiamo di essere un cittadino italiano qualsiasi, anche uno di quei pochi che leggono i giornali e si ritengono “ben informati”, ma che non ha nozioni particolari sul cambiamento climatico, le politiche energetiche o su cosa significano termini come “mitigazione” e “adattamento”. Cioè uno della stragrande maggioranza dei nostri concittadini che normalmente non trovano nulla di tutto questo nell’informazione quotidiana.
Questo cittadino nei giorni immediatamente successivi la conclusione della Conferenza di Parigi, COP21, ha letto di tutto: dichiarazioni entusiaste dei Governi protagonisti dell’accordo – da Laurent Fabius, il Ministro degli Esteri francese che ha giocato la sua faccia sulla conclusione dell’accordo, a Barack Obama che non ha esitato a mettere a disposizione il peso della sua amministrazione a servizio di chi voleva che la Conferenza si concludesse con un successo – ma anche le vibranti proteste di organizzazioni benemerite come Oxfam che hanno lamentato l’assenza di ogni riferimento ai diritti umani nel documento finale. Infine ci sono stati anche quelli, nemici di ogni accordo perché sostanzialmente “negazionisiti” (non solo i repubblicani americani ma anche la nutrita pattuglia di “fossili di casa nostra” che hanno provato a liquidare l’accordo come acqua fresca.
Ma persino tra gli ambientalisti i commenti non sono stati univoci: chi da sempre é impegnato su questo fronte, dalle grandi associazioni internazionali come Greenpeace, Wwf, il Climate Action Network e, per rimanere in Italia, a Legambiente che hanno parlato di “svolta”; ma c’è stato anche chi invece ha manifestato la propria forte delusione per la vaghezza degli strumenti che dovrebbero assicurare l’obbiettivo dichiarato: mantenere il riscaldamento globale “ben al di sotto i 2 gradi” e possibilmente non superare 1,5.
A quel cittadino sarebbe forse venuto il mal di testa, o forse (e più grave) sarebbe tornato presto a disinteressarsi del problema.
Ma forse la cosa migliore per misurare la bontà dell’accordo sarebbe quella di andarne a verificare i suoi effetti. Ce ne sono stati un paio immediati: la caduta in borsa del titolo della Exxon e l’annuncio del Governo Federale Tedesco che entro l’anno prossimo sarà elaborato il programma per fuoriuscire dal carbone. Allora forse si può condividere la dichiarazione a botta calda del capo di Greenpeace international per cui l’accordo di Parigi sarebbe rimasto nella storia perché “metteva i combustibili fossili dalla parte sbagliata della storia”.
Quindi Parigi è evidentemente solo l’inizio – per quanto riguarda le trattative internazionali – perché presto bisognerà tornare a discutere di strumenti, soldi, tempi di revisione degli obbiettivi (il 2023 attualmente previsto è davvero troppo lontano). Ma Parigi è anche la fine di un lungo percorso, iniziato a livello internazionale a Rio nel 1992 (ma anche qui in Italia Legambiente lanciò una petizione “Per fermare la febbre del Pianeta” già un paio di anni prima): oggi non solo nessuno mette più in dubbio i cambiamenti climatici, e sono pochi quelli che si ostinano a negare le responsabilità delle attività antropiche, ma ciò che a Parigi ha segnato un punto di non ritorno è chealla forza della mobilitazione delle organizzazioni civiche e ambientaliste si è aggiunto il driver dell’innovazione tecnologica che ha spostato su scelte low carbon, se non addirittura fossil free interi pezzi del sistema economico, sia nei paesi ricchi (si pensi agli impegni dei big della Silicon Valley) che in quelli emergenti (esemplare il discorso di Jack Ma, CEO di Alibaba davanti alla plenaria dell’Onu).
Non sono più solo le imprese più tradizionali della green economy a spingere in quella direzione, è sempre più diffusa la consapevolezza che l’economia del futuro o sarà “circolare” o sarà impossibile soddisfare i bisogni legittimi di masse sempre più grandi di uomini e donne che cercano più benessere.
Ma se la COP21 i non può non essere considerato un passo importante nella giusta direzione, saranno le scelte del futuro prossimo a dirci se il passo è da considerarsi sufficiente o meno: l’Europa sarà consapevole che è necessario che si rivedano al rialzo e molto rapidamente i propri impegni al 2030 in termini di riduzione delle emissioni, aumento dell’efficienza e incremento del ricorso alle fonti rinnovabili? In Italia riusciremo a rompere l’indifferenza delle nostre classi dirigenti e del Governo e imporre così politiche radicali ed efficaci che ci facciano abbandonare presto l’era fossile? Perché tra il dire il fare c’è di mezzo il mare. Tra le dichiarazioni della COP21 e le scelte politiche concrete in questo Paese sembra esserci un oceano. A Parigi si firma un accordo che pur con tutta la prudenza e con le critiche che si possono fare alla vaghezza degli strumenti previsti, segna un bel punto di discontinuità e in Italia invece si susseguono scelte tutte contro le rinnovabili, l’efficienza, l’economia circolare. Spiace dovere fare l’elenco delle brutture cui abbiamo dovuto assistere nell’ultimo periodo, proprio a cavallo di Parigi e che hanno portato alla notizia clamorosa arrivata a fine gennaio (fonte Terna): per la prima volta nella storia in Italia nel 2015 si è ridotto rispetto all’anno precedente il contributo da fonti rinnovabili alla produzione di energia elettrica, passando da più del 43% raggiunto nel 2014 al 39,8% del 2015.
Vero è che il motivo principale della riduzione è il combinato disposto della (seppur lieve: 1,5%) ripresa dei consumi e del brusco calo della produzione idroelettrica dovuta a fenomeni meteorologici, ma il fatto è che mentre in tutto il mondo gli investimenti nelle energie rinnovabili sono aumentati, arrivando alla cifra record di 329 miliardi di dollari lo scorso anno, il nostro Paese volge lo sguardo da un’altra parte. Per fare due esempi europei, la Danimarca ha raggiunto il 42% dei consumi elettrici da eolico e la Germania ha aumentato, nel 2015, di cinque punti percentuali la quota di rinnovabili sui consumi elettrici!
La spiegazione è però purtroppo semplice: nel mondo si fa avanti la convinzione che la strada per il futuro sia quella che porta a società low carbon se non addirittura fossil free, e anche la Cop21 come abbiamo visto, ha indicato quella direzione. Nel nostro Paese invece si fa di tutto per mettere i bastoni tra le ruote e cercare di far sopravvivere in qualche maniera il fossile, con una pervicacia degna di miglior causa.
Mettere in fila le scelte anche solo di questo governo (che non si distingue per nulla in questo campo da chi lo ha preceduto) è impressionante.
Il nuovo conto termico è stato emanato con oltre un anno di ritardo incomprensibile che ha paralizzato operatori e cittadini che avrebbero voluto far ricorso a soluzioni più efficienti e pulite per riscaldare e raffrescare le case ad esempio, e ha fatto perdere tempo e occasioni a quelle pubbliche amministrazioni virtuose che avrebbero voluto agire in quel senso.
Il Decreto che avrebbe dovuto rinnovare gli incentivi per le rinnovabili non fotovoltaiche lo si attende ormai da più di un anno e quando finalmente tornerà indietro dall’Europa avremo uno strumento comunque poco utile in quanto presenta riduzioni drastiche per quasi tutte le fonti, salvaguardando però quelle false – sia le riconversioni degli zuccherifici sia gli inceneritori.
Nel frattempo l’Autorità delibera una riforma delle tariffe che, spostando gli oneri dalla parte variabile a quella fissa, di fatto scoraggia l’autoconsumo. E questo nonostante le proteste di tutti gli operatori sostenuti dai presidenti delle commissioni Ambiente di Camera e Senato. Ma se ormai il fotovoltaico non ha più incentivi se se ne scoraggia anche l’impiego in autoconsumo non è proprio comprensibile come si possa pensare di raggiungere gli obiettivi dichiarati a Parigi che necessariamente richiedono un aumento di ricorso alle rinnovabili.
Ma non finisce qui: il Gse nell’ultimo periodo si sta distinguendo per scelte sui titoli di efficienza energetica che sostanzialmente intervengono in maniera retroattiva non riconoscendo (non si capisce su quali basi) operazioni già realizzate che in alcuni casi avevano persino avuto benestare preventivo dall’Enea o dallo stesso Gse, gettando nella disperazione le Esco serie, agricoltori che avevano investito in serre, imprese. Peraltro se questo è l’annuncio di ciò che ci riserverà la riforma dei titoli prevista per la primavera, dovremo aspettarci una grave battuta d’arresto anche sull’efficienza (e non è possibile limitarsi al pur ottimo provvedimento dell’ecobonus in edilizia).
Infine il ministero dello Sviluppo economico annuncia la sua intenzione di far pagare gli oneri di sistema anche a chi autoconsuma l’energia elettrica che si produce da fonti rinnovabili come se la prelevasse dalla rete.
Se poi ci aggiungiamo la nota volontà di trivellare (che lo spauracchio del referendum forse impedirà) e la voglia matta di bruciare i rifiuti (con il decreto del ministero dell’Ambiente che prevede 9 nuovi inceneritori) cui come abbiamo visto il Mise garantisce anacronistici incentivi, il quadro è completo: dal governo italiano le rinnovabili sembrano essere considerate un impaccio invece che – come in tutto il resto del mondo – un’occasione per rilanciare l’economia, oltre che un obbligo per combattere i cambiamenti climatici (la Nasa ci ha appena confermato che il 2015 è stato l’anno più caldo registrato nella storia).
Che fare? I fatti hanno la testa dura: il futuro è rinnovabile. E i fossili che prendono queste decisioni saranno sconfitti dalla Storia. Rimbocchiamoci le maniche, insieme al Coordinamento Free (Fonti rinnovabili ed efficienza energetica), le associazioni ambientaliste, gli imprenditori della green economy, affinché la svolta necessaria avvenga al più presto e che sia radicale. Altrimenti il nostro Paese avrà perso un altro treno. Un peccato imperdonabile.