Su petrolio e referendum, Renzi da rottamatore a restauratore
Articolo di Roberto Della Seta e Francesco Ferrante su Huffington Post –
Né deriva centrista né rottamazione della vecchia politica. Macché. Alle prese con il tema-trivelle, dall’invito del Pd all’astensione nel referendum del 17 aprile fino a questa sorta di “trivellopoli” che ha interrotto bruscamente la carriera governativa dell’ex-ministra Guidi, Matteo Renzi si è tolto la maschera: la sua vera ambizione è restaurare la sinistra di trent’anni fa, quella che pensava allo sviluppo come ciminiere, carbone, cemento e asfalto, cominciava a tessere rapporti più o meno trasparenti con le lobby industriali più retrive dall’acciaio all’energia fossile, detestava non solo i primi ambientalisti ma chiunque si azzardasse a proporre una visione del benessere e dell’economia orientata alla qualità più che alla quantità e magari un’idea di politica economica autenticamente “liberale” che combattesse in monopoli e favorisse una vera concorrenza.
Occasione per il disvelamento della vera natura del renzismo sono stati il referendum del 17 aprile sulle trivellazioni petrolifere e prima ancora la scelta compiuta da questo governo di fermare l’avanzata delle energie pulite intervenendo retroattivamente sugli incentivi al loro sviluppo – introdotti dall’ultimo governo Prodi e che già sotto Berlusconi (ministri dello sviluppo Scajola e Romani), Monti (ministro Passera) e Letta (ministro Zanonato) si era cominciato a “minare” -, e di lanciare un grande programma di perforazioni petrolifere e metanifere a terra e in mare. Di fronte ai referendum anti-trivelle richiesti da nove regioni, e forse dietro suggerimento di qualche sondaggista che gli ha spiegato che la sua posizione sul tema gode di scarsissimo consenso nel Paese, Renzi con l’ultima legge di stabilità si è rimangiato praticamente tutto ma gli è sfuggita una delle norme oggetto di referendum, quella che prevede il rinnovo “sine-die” delle concessioni già in essere entro 12 miglia dalla costa (relative a oltre 400 pozzi petroliferi e metaniferi).
Così, pur di togliere valore alla prevedibile, larghissima maggioranza dei votanti che il 17 aprile risponderà sì al quesito referendario rimasto in campo e in tale modo si esprimerà per un radicale cambio di rotta nelle politiche energetiche italiane, Renzi fa di tutto per sabotare la partecipazione al referendum, offrendo come leader del Pd lo spettacolo paradossale di un partito che si chiama democratico e che invita a boicottare l’unico strumento di democrazia diretta disponibile in Italia.
La brutta vicenda che ha portato alle dimissioni di Federica Guidi da ministra dello sviluppo e ha rivelato a tutti la sistematica preferenza accordata dal governo agli interessi delle lobby dell’energia fossile, non è da questo punto di vista che l’ultimo atto, certo il più desolante, di una storia già lunga. Su di noi e immaginiamo su tanti come noi tutto questo fa l’effetto di un sorprendente “déjà-vu”. Ci è sembrato di tornare a trent’anni fa, a quando scegliemmo l’ecologia come bussola culturale della nostra idea di progresso e ci sentivamo ripetere ogni giorno che occuparsi di ambiente è bello e nobile ma non crea ricchezza, benessere, anzi rischia di distruggerli; che l’energia pulita, quella del sole e del vento, non potrà mai sostituire il petrolio e il carbone ma è destinata a rimanere una piccola, insignificante nicchia.
A utilizzare per prima e più abbondantemente questo ritornello fu la sinistra comunista, inesorabilmente legata al mito dello sviluppo come crescita continua e illimitata della produzione fisica di beni. Chi segnalava che questo modello produceva costi sempre più alti per l’ambiente e la salute, che per esempio bruciare sempre più petrolio e carbone esponeva non tanto la natura ma noi esseri umani a danni gravi e crescenti, i comunisti duri e puri degli anni ’70 e ’80 lo liquidavano come un’anima bella o un reazionario. E mentre davano improbabili lezioni a noi “sognatori” sulle “durre leggi” dell’economia, costruivano alleanze e scambiavano favori con i grandi poteri economici: industria pesante, vecchia chimica, monopolisti del mattone e naturalmente petrolio.
La realtà, sia la realtà virtuosa della “green economy” che cresce dappertutto sia la realtà preoccupante dell’inquinamento e della crisi climatica, ha dimostrato che le vie del futuro erano altrove. Oggi i comunisti non ci sono quasi più, tutti almeno a parole riconoscono l’urgenza di superare l’epoca dell’energia fossile per porre un freno ai cambiamenti climatici, in mezzo mondo e soprattutto nei Paesi tecnologicamente più avanzati come la Germania l’energia solare ed eolica si sta affermando come la principale risorsa energetica e alimenta un’industria che dà lavoro a milioni di persone; in Italia però quella mentalità – fossile quanto il petrolio – che si credeva seppellita ha trovato un apologeta inatteso ed entusiasta in Matteo Renzi. Così il Partito democratico, nato anche per superare l’ideologia vetero-industrialista della sinistra novecentesca e per accogliere l’ambiente tra i temi fondativi del proprio rinnovato sguardo sul mondo, si sta riducendo a fare da guida alla campagna anti-referendum dell’industria fossile, disposta a tutto pur di ritardare il proprio inevitabile declino.
Renzi, l’ha detto anche durante una sua recente visita negli Stati Uniti, pensa che ilpetrolio sia insostituibile e che le energie rinnovabili siano tutt’al più un giocattolo divertente, al limite utile per un po’ di export tecnologico. Gli importa poco che superare il più rapidamente possibile la dipendenza dei sistemi energetici dai fossili sia l’unico modo per scongiurare quell’aumento della temperatura terrestre di oltre due gradi che provocherebbe catastrofi economiche e sociali, anche in Italia. Forse si considera una sorta di reincarnazione di Enrico Mattei, il fondatore dell’Eni che sognava di ricoprire l’Italia di pozzi petroliferi: qualcuno che può, per favore, gli spieghi che da Mattei – che è stato sicuramente un grande italiano – è passato non solo metaforicamente quasi un secolo; quel mondo a misura di petrolio che allora era sinonimo di progresso economico e sociale, oggi è, come ha dichiarato qualche mese fa Barack Obama, la principale minaccia esistenziale per il nostro benessere.