E i porti quando riaprono?

In tanti abbiamo atteso con impazienza la pubblicazione del c.d. “Decreto rilancio”. Sapere quando poter rivedere amiche e amici che vivono in un’altra regione, poter andare a teatro e dal parrucchiere è qualcosa che mentalmente aiuta dopo due mesi di attenta osservanza delle norme di contenimento dell’emergenza sanitaria in corso. 18 maggio e 3 giugno. Sono questi i due nuovi traguardi in vista della ripresa di una vita “normale”. Per molti, ma non per tutti. A chi, come me, da tanto tempo segue gli arrivi dei migranti via mare, non è infatti sfuggito che i porti continuano a restare chiusi, fino al 31 luglio.

Spesso mi capita di dire ai miei amici che mente chi dice che ha chiuso i porti, perché i porti non possono essere chiusi. L’espressione “questa casa sembra un porto di mare” si utilizza proprio per indicare il fatto che c’è chi entra e chi esce a suo piacimento, anche senza avvisare.

Ma se è vero che materialmente non si possono chiudere i porti e che l’espressione “porti chiusi” viene oggi utilizzata per identificare atteggiamenti e politiche di chiusura nei confronti dei migranti, è altrettanto vero che ci sono casi e situazioni eccezionali, tra cui anche un’emergenza sanitaria, in cui le Autorità possono dichiarare che un porto non è sicuro e quindi limitarne o vietarne l’accesso.

Il decreto firmato il 7 aprile 2020 dal Ministro per i trasporti e le infrastrutture di concerto con il Ministro degli Affari Esteri e della Cooperazione internazionale, il Ministero dell’Interno, della Salute ha avuto proprio questa finalità.

In tale decreto si afferma, infatti, che, per l’intero periodo di durata dell’emergenza sanitaria nazionale, derivante dalla diffusione del virus COVID-19 – quindi fino al 31 luglio 2020 – i porti italiani non assicurano i necessari requisiti per essere qualificati come “luoghi sicuri” e per questo motivo non possono accogliere le persone soccorse in mare da parte di unità navali battenti bandiera straniera al di fuori dell’area di ricerca e soccorso (SAR) italiana.

Il motivo per cui tutti i porti italiani non siano da considerarsi luoghi sicuri, per l’intero periodo di durata dell’emergenza sanitaria nazionale, è specificato nelle premesse del decreto (quelle che quasi mai nessuno legge): i Servizi Sanitari regionali sono in una situazione critica, i medici e il personale sanitario stanno dedicando un impegno straordinario per l’assistenza ai pazienti COVID-19 e “non risulta pertanto possibile assicurare sul territorio italiano la disponibilità di luoghi sicuri senza compromettere la funzionalità delle strutture nazionali sanitarie, logistiche e di sicurezza dedicate al contenimento della diffusione del contagio e di assistenza e cura ai pazienti COVID-19”.

Si aggiunge poi che “alle persone eventualmente soccorse deve essere assicurata l’assenza di minaccia per la propria vita, il soddisfacimento delle necessità primarie e l’accesso ai servizi fondamentali sotto il profilo sanitario, logistico e trasportistico” – frase che lascia quasi intendere che il divieto di ingresso in porto sia nel loro interesse e reso necessario dal dovere di tutelare i loro diritti. 

Il fatto che tra queste persone “non possa escludersi la presenza di casi di contagio”, e che, quindi, si tratti di persone con problemi di salute, è solo un inciso.

Infine, si specifica che occorre considerare anche il consistente impegno delle forze di polizia nel controllo del territorio per far rispettare le misure di contenimento della diffusione epidemiologica – come a indicare che in caso di arrivi di soccorsi in porto non potrebbe essere garantita la loro presenza oppure potrebbero essere presenti, ma a scapito dell’efficacia delle misure di contenimento finora adottate e garantite dalle forze dell’ordine.

La questione che si pone è: questa situazione è ancora vigente? E sarà questa la situazione fino al 31 luglio?

Il decreto del 7 aprile, che di fatto non consente o quantomeno ostacola i soccorsi in mare e quindi impedisce o quantomeno rende più difficile salvare vite umane, se era già di per sé discutibile al momento della sua emanazione, avrebbe dovuto prevedere un tempo di applicazione estremamente limitato nella sua durata, adeguato alla situazione e proporzionato al fatto che il diritto alla vita è un diritto umano fondamentale e inviolabile.

Il fatto che non fosse adeguato alla situazione era già insito nella parte di testo in cui fa distinzione tra soccorsi condotti da unità navali battenti bandiera straniera e italiana ed effettuati al di fuori o all’interno dell’area di ricerca e soccorso italiana e non considera la possibile presenza a bordo di persone vulnerabili, compresi casi sanitari.

Ma il fatto che quel decreto non rispetti più neanche gli altri requisiti lo ha, paradossalmente, affermato proprio il Presidente del Consiglio firmando il decreto del 16 maggio. 

Dalle premesse di quest’ultimo decreto, infatti, si evince che in considerazione dell’attuale stato della situazione epidemiologica è necessario adottare misure di contrasto e contenimento adeguate e proporzionali alla diffusione del virus e quindi rivedere le precedenti disposizioni di contenimento dell’emergenza sanitaria COVID-19.

Quasi tutte vengono riviste, tranne quelle relative al soccorso in mare, che restano quindi valide fino al 31 luglio 2020. Ciò significa che, a partire dal 3 giugno, vi è la possibilità di effettuare spostamenti da e per l’estero. Ma tutti i porti italiani non sono luoghi sicuri per chi viene soccorso in mare da unità navali battenti bandiera straniera.

Sicuramente l’allerta è e deve restare alta per evitare di mettere nuovamente sotto pressione il già debole sistema sanitario nazionale, ma portare in porto persone soccorse in mare è davvero più pericoloso di aprire bar e ristoranti?

Senza considerare che ci sono porti, in Regioni fortunatamente poco colpite dall’emergenza sanitaria, che hanno gestito arrivi di migliaia di migranti anche in periodi, come il 2014 e il 2015, in cui era stato dichiarato dall’OMS il pericolo di diffusione del virus Ebola, che hanno protocolli e conoscono e hanno già utilizzato procedure per la precoce identificazione e la gestione di questo virus.

In mancanza di un provvedimento correttivo che definisca di nuovo sicuri i porti italiani, almeno a partire dal 3 giugno, potrebbe sembrare che la situazione sanitaria emergenziale sia stata utilizzata come mero pretesto per non doversi anche occupare di chi rischia la propria vita in mare e forse pensare di aver così risolto il problema dell’arrivo dei migranti, almeno fino al 31 luglio e salvo proroghe dello stato di emergenza sanitaria.

Tale approccio risulta essere non solo disumano ed egoista, ma anche miope ed irresponsabile perché anziché risolvere un problema in realtà lo crea: l’esperienza ci dovrebbe infatti aver insegnato che se non si soccorrono i migranti in mare, ci sono imbarcazioni di fortuna che riescono comunque a raggiungere le nostre coste, proprio come è successo negli ultimi giorni a Lampedusa.

In caso di arrivi cosiddetti spontanei o “orfani” non ci sono dispositivi né procedure di contenimento, quindi eventuali casi sanitari non vengono identificati. E non è forse questa una situazione ben più pericolosa per la popolazione rispetto alla possibilità di organizzare un presidio sanitario in porto?

Forse è il caso che il Presidente del Consiglio prenda in considerazione queste informazioni perché, almeno su questo, è decisamente possibile fare meglio.

Perché salvare vite umane non si può. Si deve.

Viviana Valastro – Green Italia