L’elezione di Donald Trump può insegnarci qualcosa sulla democrazia

Articolo di Monica Frassoni su Huffington Post –

Esattamente una settimana fa, martedì 8 novembre, ero a Washington e mi preparavo a trascorrere la serata davanti a un paio di megaschermi insieme a circa 500 esperti elettorali provenienti da 80 paesi, partecipanti come me alla conferenza biannuale Global Electoral Organisation.

Risultato elettorale a parte, dopo vari giorni passati ad ascoltare esperti e politici statunitensi, un trattamento intensivo di CNN e dibattiti televisivi nei quali (proprio come da noi), le stesse persone transitano da una trasmissione all’altra, dopo una giornata elettorale trascorsa a saltellare da un seggio all’altro in Virginia, Maryland e Washigton DC, devo dire che ho oggi una idea un po’ più negativa della “grande” democrazia americana rispetto a quella che avevo quando sono arrivata.

Pur senza sottovalutare i problemi e i limiti della campagna di Hillary Clinton e della stessa candidata, e considerando tutte le analisi sulla rivincita dei maschi bianchi e della rabbia delle vaste zone rurali statunitensi, è importante non dimenticare che Trump ha vinto anche sfruttando regole e consuetudini che lo hanno favorito, mentre ha perso il voto popolare.

La “qualità” del dibattito politico e delle regole che sovrintendono all’ordinamento democratico, soprattutto ma non solo al momento delle elezioni, è un tema centrale sul quale riflettere, non solo riferito agli Stati Uniti, ma anche all’Europa, come chiaramente dimostrato dal referendum sulla Brexit e dai timori intorno alla possibile affermazione di Hofer in Austria, di Marine Le Pen in Francia e dell’AfD in Germania.

L’esclusione sociale e l’alienazione non sono gli unici motivi che spingono a costruire muri e buttare fuori i migranti, a non curarsi di “dettagli” quali i diritti civili o i rischi dei cambiamenti climatici, a dare fiducia a un noto evasore fiscale (il cui mentore ha orchestrato la caccia alle streghe di McCarthy), che ha appena nominato alla Casa Bianca un sostenitore della “white supremacy”. In altre parole, oltre a rispondere alle insufficienze delle politiche economiche e sociali, dobbiamo capire che ruolo hanno le regole del gioco, la loro assenza o debolezza, nel rendere attraenti e convincenti opzioni politiche che rischiano di scardinare la coesione e la convivenza pacifica in molte delle nostre società.

Prendiamo a esempio il tema del cosiddetto collegio elettorale, ossia il fatto che a eleggere il presidente degli Stati Uniti non siano direttamente i cittadini, ma dei grandi elettori, scelti da ogni Stato sulla base del numero dei membri del congresso e dunque degli abitanti, secondo un sistema rimasto praticamente lo stesso dal 18° secolo.

Questa regola traeva origine dall’idea che un gentiluomo non dovesse fare campagna per sé e che i partiti politici fossero una cosa disdicevole; si riteneva anche che, qualora si fosse concesso il suffragio universale (maschile ovviamente), avrebbero sempre vinto candidati degli stati più popolosi. Lo stesso argomento si usa oggi in Europa per respingere l’idea di liste transnazionali per il Parlamento europeo! Nelle parole di Hamilton, uno dei padri del federalismo americano, gli elettori dovevano scegliere “un piccolo numero di persone, selezionate dai loro concittadini dalla massa generale, tra coloro probabilmente in grado di possedere le informazioni e il discernimento necessario a tali complicati compiti.”

E però la vera causa per la quale il sistema è sopravvissuto è che gli Stati del Sud hanno preteso di contare nel computo necessario a definire il numero degli elettori anche… gli schiavi, i quali non potevano votare. Oggi non ci sono più schiavi, ma è stata mantenuta una sovra-rappresentazione dei piccoli stati non dissimile, nella logica, alla sovra-rappresentazione dei piccoli paesi membri nel Parlamento Europeo. Proprio come in Europa, non esiste un collegio elettorale unico, ma 50 diversi (più Washington).

Altra curiosità è il fatto che Trump abbia vinto con il sistema “winner takes it all”: chi prende più voti, non importa quanti, prende tutti gli elettori di un certo stato. Alcuni autorevoli costituenti erano scandalizzati da questa pratica perché aveva trasformato gli elettori in “lacchè di partito ed entità senza cervello”.

Nonostante i tentativi, l’ultimo negli anni ’60, non si è mai riusciti a modificare questo sistema completamente sfasato rispetto a una democrazia moderna. Le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti. Hillary Clinton avrebbe comodamente vinto le elezioni con quasi un milione di voti in più se si fosse votato a suffragio universale. Un margine persino più largo di quello di Al Gore.

E che dire delle finanze? Durante la conferenza a Washington, Anne Ravel, la presidente della commissione federale sulle elezioni il cui mandato è l’applicazione di regole in materia di finanziamento delle campagne elettorali, ha candidamente ammesso che la commissione non funziona, non applica la legge, è costantemente bloccata da veti incrociati e dall’opposizione dei suoi membri repubblicani a qualsiasi regola (sono 6 membri, 3 repubblicani, 3 democratici). Figuriamoci l’effetto di queste affermazioni sui delegati africani alla conferenza, che sono costantemente redarguiti su corruzione e finanziamenti indebiti…

Per di più, la decisione della Corte suprema nel caso “Citizen United” nel 2010 ha di fatto reintrodotto la possibilità di finanziamenti di qualsiasi cifra a organizzazioni che sostengono questo o quel candidato. Ann Ravel spiega che, sebbene in teoria i donatori debbano essere dichiarati, c’è un sistema parallelo che è impossibile da penetrare.

Il costo totale della campagna è stato calcolato a 6,9 miliardi di dollari (6,3 nel 2012), di cui 1,2 dalle associazioni Super-Pacs (political action committees) e ben 2 miliardi da parte di 100 “famiglie” danarose. Sempre Ann Ravel ha dichiarato che il sistema politico e i media sono nelle mani di pochi attori economici e questo ha un impatto certo sulla campagna, su chi si può candidare e su chi viene eletto. Tanto per fare un esempio, le donne e i rappresentanti delle minoranze hanno ancora dei concreti problemi di accesso alla politica, anche perché i donatori sono per la maggior parte maschi bianchi.

Eppure è importante notare che alla mancanza di trasparenza e alla spesa vertiginosa da parte di pochi va aggiunto, nel caso specifico della campagna di Donald Trump, un elemento distorsivo, che noi in Italia conosciamo benissimo: l’effetto “celebrity”. Jed Bush è riuscito a raccogliere più di 100 milioni di dollari solo per le primarie, ma questi soldi sono parsi noccioline di fronte ai 2 miliardi di dollari, stimati essere il valore della campagna gratis fatta dagli stessi media per Donald Trump, dovuta al fatto che lui era già una celebrità da reality show e una “news ambulante”. Una trappola infernale, nella quale è il denaro che determina se tu “stai al tavolo o sei il menu”, come un fund-raiser ha efficacemente riassunto durante la discussione. Come si può competere “democraticamente” in questo contesto?

Il tema del finanziamento delle campagne elettorali è spinoso ovunque, un sistema perfetto non esiste. Se io devo considerare la mia piccolissima esperienza personale, so che, quando sono stata eletta in Belgio al Parlamento europeo, ho dovuto spendere circa 200 euro di tasca mia, anche perché nei Verdi la campagna è collettiva. Quando ho partecipato alle elezioni europee in Italia nel 2004 con il sistema micidiale e falsamente democratico delle preferenze su circoscrizioni enormi, eravamo intorno ai 60.000: colleghi di partiti più grandi vi potrebbero parlare di centinaia di migliaia di euro spesi. Oggi, se anche lo volessi, mi sarebbe assolutamente impossibile avvicinarmi a qualsiasi candidatura in Italia per ragioni puramente economiche.

In Belgio le regole di finanziamento della politica sono tali per cui ogni partito può spendere al massimo un milione di euro e ogni candidato 10.000 euro alle elezioni europee: queste spese devono essere rendicontate con precisione, pena multe severe. Niente spot tv né cartelloni oltre una certa misura, tempi certi e regolamentati sui media.

Personalmente, ritengo che la questione del finanziamento della politica sia uno dei temi chiave da risolvere in tempi di populismo rampante. La pista migliore viene dalle proposte dei radicali di offrire “servizi” all’attività politica e non soldi a fondo perduto, oltre che un riequilibrio reale dell’accesso ai media, almeno durante la campagna elettorale; ritengo infatti che l’illusione grillina di voler fare credere che si può fare politica senza soldi dipenda grandemente dal fatto che il loro leader e la Casaleggio Associati, all’inizio della loro storia, hanno potuto contare sull’effetto “celebrity” e su ingenti risorse.

Ma torniamo agli Usa. Subito dopo il risultato elettorale, i media americani (come quelli britannici subito dopo il referendum) hanno cominciato un processo di autoanalisi per capire se il loro modo di informare e, in particolare, la totale sottovalutazione dei segnali dati dalla campagna di Bernie Sanders e dello stesso Donald Trump, insieme al livello del tutto insufficiente di resistenza rispetto alle affermazioni chiaramente razziste, xenofobe e misogine di Trump, non fossero tra gli elementi chiave della vittoria del pittoresco miliardario, insieme al ruolo ambiguo di facebook e di twitter come propagatori di false notizie e di contenuti offensivi (sono dei “media” o no?).

La questione della regolamentazione dei media in tema di pluralismo politico e di concentrazione è una vecchia e polverosa battaglia di molti di noi anche a livello europeo. Qualcuno si ricorderà forse che all’inizio degli anni ’90 l’allora commissario Monti aveva proposto una direttiva in proposito, e che i rappresentati di molti dei 15 stati membri l’avevano sdegnosamente respinta.

Da allora la Commissione, nonostante le epiche discussioni sulla libertà di stampa e le innumerevoli iniziative e voti da parte del Parlamento europeo e di molte Ong ai tempi di Berlusconi, non aveva mai più accettato di riconsiderare la vicenda. Un gigantesco errore, che ha aperto un’autostrada ai vari Orban e Kaczynsky e alle loro riforme reazionarie in materia di libertà di stampa ed espressione. L’evidente impotenza della Ue di fronte a queste gravi derive da parte di alcuni stati membri ci impedisce a sua volta di dire alcunché di sensato contro le purghe e gli arresti di Erdogan.

Io sono convinta che, anche in vista delle elezioni del 2019, la questione del finanziamento delle campagne e del ruolo dei media dovrebbe essere ripreso a livello comunitario. Non passerà il vaglio di un consiglio dei ministri ormai totalmente ostile a qualsiasi azione comune? Forse. Ma è molto importante che il dibattito su questi temi, i quali sono costitutivi della qualità democratica delle nostre società, stia sullo stesso piano della battaglia per il cambio delle politiche concrete. In caso contrario, non potremo che rassegnarci all’idea che il suffragio universale possa costituire la più potente arma di smantellamento della civiltà occidentale, come ha commentato su twitter un utente anonimo subito dopo le elezioni americane.

Un tema che invece non pareva affatto preoccupare i nostri interlocutori statunitensi era quello della partecipazione al voto: nonostante la risonanza globale dell’elezione del presidente degli Stati Uniti, solo il 53% degli aventi diritto hanno votato. Certo, il tema dell’accesso al voto si pone in modo diverso in Europa che negli Stati Uniti. Qui in Belgio il voto è obbligatorio, la partecipazione è fra l’85 e il 90% e io sono dell’opinione che sia un’ottima cosa. Nonostante l’esiguità delle sanzioni (nemmeno realmente applicate), l’obbligatorietà del voto lo rende un dovere e non un diritto: questo ha un effetto “psicologico” e culturale da non sottovalutare.

In un sistema come gli Stati Uniti, l’obbligatorietà del voto porrebbe le varie amministrazioni di fronte alle loro responsabilità di rendere il voto accessibile a tutti. Tanto per fare un esempio vissuto in diretta, durante la mia giornata elettorale negli Usa ho notato che in Maryland, Stato governato da un repubblicano, in un seggio frequentato soprattutto da neri c’era una sola macchina e una lunga coda di gente impaziente, dato che si vota in un giorno lavorativo e non si può prendere un congedo per votare. In una zona prevalentemente abitata da bianchi c’erano 5 belle macchine e nessuna coda. Un caso? Io non credo.

In conclusione, se dobbiamo attivarci di più sui temi politici, dai diritti all’economia, dai cambiamenti climatici alla battaglia contro razzismo e xenofobia, non possiamo declassare le regole del gioco democratico e la loro correttezza a questione tecnica, se vogliamo rendere meno attraenti le opzioni populiste e antidemocratiche, se vogliamo restituire alla politica il suo ruolo nobile di competizione sana fra idee e persone e non di scelta superficiale basata su menzogne o insulti.