Il Nimby che fa male all’ambiente

di Francesco Ferrante

Diciamolo chiaramente: c’è un nimby che fa male all’ambiente e che va combattuto se vogliamo davvero guidare la transizione verso un’economia e una società free-carbon.

Non parliamo ovviamente di quelle difese del territorio – anche fondanti delle identità di tante comunità – che in questi anni hanno impedito ulteriori scempi di speculatori senza scrupoli che tanto hanno devastato il nostro Paese con abusi edilizi, sotterramento di rifiuti tossici, infrastrutture stradali utili solo alle tasche di chi le realizzava. Parliamo di quegli “annientalisti” che contestano qualsiasi impianto da fonti rinnovabili o di produzione di biometano che sarebbero invece indispensabili per sostituire produzione di energia da fonti fossili o chiudere in maniera razionale, efficiente e sicura il ciclo dei rifiuti che parte dalla raccolta differenziata.

Intendiamoci, anche quelli devono essere realizzati bene e nei posti giusti, perché “anche il bene va fatto bene” come diceva Diderot. Ma non è tollerabile che un impianto di geotermia a ciclo chiuso da pochi megawatt, il cui impatto ambientale e paesaggistico è sostanzialmente nullo, magari progettato in area industriale, venga contestato da comitati locali come se fosse una centrale nucleare. E pure succede. Oppure ci si può rassegnare a restare in silenzio di fronte agli ostacoli posti – da qualche comitatino, di solito sostenuto da Soprintendenze piuttosto miopi – per il repowering di impianti eolici (sostituire pale vecchie con nuove e più performanti) nello stesso luogo? E davvero si ritiene da “ecologisti” sostenere che i 50.000 MegaWatt di nuovo fotovoltaico che ci servono, possiamo realizzarli solo sui tetti e non si debbano invece utilizzare terreni in aree industriali, o anche in quelle agricole – innanzitutto ovviamente quelle marginali e abbandonate – magari sfruttando proprio la realizzazione dell’impianto per rilanciare attività agricole compatibili con lo stesso?

Sostituire fossili con rinnovabili per la natura di quelle che ci piacciono – meno concentrate e più diffuse sul territorio – significa farne tanti di impianti e quindi è indispensabile superare questo nimby che molto spesso si intreccia con la pavidità e furbizia del nimto (not in my terms of Office) di molti amministratori locali

Discorso analogo va fatto per i rifiuti: se davvero si vuole perseguire l’obiettivo di “rifiuti zero” bisogna fare “1000 impianti”. Per far tornare a nuova vita la materia raccolta in maniera differenziata servono gli impianti, non avviene per via miracolistica. E allora se la percentuale maggiore di rifiuti urbani e quella che finisce nell’organico (se la raccolta differenziata è fatta bene), vanno fatti gli impianti di digestione di quel rifiuto. Possibilmente per via anaerobica così si produce biometano da mettere in rete (in sostituzione di quello fossile) e digestato che dopo essere compostato (aerobicamente) può essere utilizzato in agricoltura (riducendo peraltro il ricorso alla chimica). Ê insensato che nel meridione ce ne sia una grande mancanza di questi impianti e grida letteralmente vendetta l’opposizione cui dobbiamo assistere a Roma (che non ha alcun impianto di trattamento dei suoi rifiuti) ogni volta che se ne propone uno in qualche zona della Capitale.

L’ambientalismo utile al cambiamento deve sapere distinguere tra le sacrosante battaglie contro gli scempi ambientali e quelle il cui obiettivo è solo la conservazione dell’esistente e che di fatto conduce l’immobilismo. Dobbiamo invece muoverci e assai rapidamente per costruire le condizioni per realizzare il mondo diverso che è possibile e desiderabile.