IL GREEN DEAL EUROPEO 

di Monica Frassoni

La prima sessione plenaria del Parlamento Europeo a Strasburgo del 2020 sarà sicuramente ricordata per essere quella nella quale il Green Deal europeo annunciato dalla Commissione in dicembre, proprio nei giorni del fallimento della COP di Madrid, ha iniziato quello che sarà un lungo e sicuramente complicatissimo iter, pieno di insidie, ma che ha dato fin dall’inizio un obiettivo e una identità chiara all’esecutivo europeo.

La risoluzione adottata dal Parlamento europeo, che consiglio a tutti di studiare nonostante il burocratese europeo, presenta una precisa road-map delle cose da fare nei prossimi anni. Il testo, approvato a larghissima maggioranza, si basa sulle proposte dei Verdi. Pur se ne mancano alcune, come il target di riduzione delle emissioni del 65% entro il 2030, l’anticipo della neutralità carbonica al 2040, la decisa revisione della politica agricola comune, che è oggi un driver importante di emissioni climalteranti, e lo scorporo degli investimenti verdi dal computo del deficit, è evidente che il ruolo che i gruppi maggioritari del PE hanno per ora deciso di darsi in questa partita è di stare un passo avanti rispetto alla Commissione e il Consiglio.

Quali sono allora le questioni da tenere d’occhio nei prossimi mesi per capire se sul Green deal si fa sul serio o no?

Direi sostanzialmente quattro. La prima sarà la discussione sui target di riduzione delle emissioni. La Presidente Von del Leyen ha detto ormai mesi fa di essere disposta ad aumentare da 40% al 50 o 55% gli obiettivi di riduzione delle emissioni al 2030. Però non pare avere fretta. Ha parlato di una valutazione di impatto da fare per capire se e quando realizzare questa promessa, processo molto complicato che potrebbe prendere mesi e che sarà esposto a tutte le lobbies possibili ed immaginabili oltre che a una forte resistenza al Consiglio e nella stessa Commissione: eppure c’è poco da valutare. Si sa già che se si vogliono davvero rispettare gli impegni di Parigi, le emissioni in Europa dovrebbero scendere del 65% al 2030 per azzerarsi tra il 2040 e il 2050. È indispensabile percio’ che questa decisione sia presa prima di COP26: se cosi non fosse, la UE si presenterebbe debole e poco credibile ai negoziati che si annunciano molto difficili.

La seconda partita sarà la riapertura di un numero importante di direttive e regolamenti, al fine di renderli coerenti con gli obiettivi del EGD e l’urgenza di accelerare la transizione. Se le cose vanno come previsto, ci sarà parecchio da fare a Bruxelles nei prossimi due anni, dato che bisognerà rivedere al rialzo le norme su rinnovabili, efficienza energetica, eco-design, economia circolare, emissioni nei trasporti, inclusa aviazione e trasporti marittimi, qualità dei carburanti, ecc…; bisognerà agire sulla biodiversità, sulle misure di adattamento e varare finalmente la direttiva sulla protezione dei suoli, tutte tematiche estremamente controverse e sulle quali molti stati membri non vedono di buon occhio il rafforzamento o l’introduzione di norme europee.

C’é poi tutta la grande questione delle quantità delle risorse e della qualità della spesa europea; anche la UE ha ancora enormi difficoltà a orientarla su investimenti sostenibili e a rinunciare -esattamente come in Italia- a sussidi fossili e ad attività dannose per l’ambiente, a partire da autostrade e infrastrutture pesanti. Non c’è ancora accordo sul bilancio pluriannuale 2021-2027 della UE, – che rappresenta peraltro un misero 1% del PIL europeo, contro il 27% degli USA. I soliti stati membri del nord vogliono ridurre il loro contributo, e per di più la Brexit ci lascia un buco di 10 miliardi annui e non è detto che una parte delle nuove iniziative – a partire dal Just transition Fund, non si risolvano alla fine con uno spostamento di fondi esistenti da una linea di bilancio ad un’altra. Inoltre, nonostante ci sia un accordo di massima che dice che il 25% della spesa deve andare alla lotta al cambiamento climatico, ci sono notevoli rischi che una parte non irrilevante del resto sia ancora rivolta a spese insostenibili, come in una gigantesca tela di Penelope, che con una mano tesse la nuova economia e con quell’altra la disfa. Collegato al tema delle risorse, che non possono solo essere europee e pubbliche, ma devono riuscire a sbloccare finanziamenti privati e degli stati membri, è il grande tema della revisione delle regole per gli aiuti di stato e gli investimenti verdi, che molti ormai pensano debbano potere essere scorporati dal computo del deficit. Su questo, la battaglia sarà dura anche dentro il PE, data l’opposizione di gran parte dei popolari e dei Liberali. Il neo commissario all’economia Gentiloni avrà molto lavoro da fare per convincerli!

Infine, last but not least, la “transizione giusta”, ovvero le politiche sociali che devono accompagnare quella che ormai tutti capiscono essere un ri-orientamento totale del sistema economico e sociale europeo più che un semplice piano di investimenti.

Martedi 14 gennaio la Commissione ha presentato le grandi linee del Meccanismo della Giusta Transizione che si compone di tre parti e ha l’ambizione di mobilitare 100 miliardi di euro nel periodo 2021-2027.

– Fondo di Giusta Transizione, 7,5 miliardi di euro, da integrare con contributi dai fondi strutturali e il cofinanziamento nazionale – per un totale di 30-50 miliardi di euro di capacità potenziale di finanziamento;

– Risorse riservate (1,8 miliardi di euro ) nell’ambito di InvestEU, il successore del Piano Juncker, che aspira a generare 45 miliardi di euro di investimenti; prestiti agevolati al settore pubblico da parte della BEI, la banca europea degli Investimenti.

– Proventi dallo scambio di emissioni (ETS)

Ma più che il denaro, il problema sarà la definizione dei criteri di accesso ai finanziamenti. Bisogna fare in modo di non finanziare imprese inquinanti, ma una nuova professionalità dei lavoratori, nuove attività economiche, un accompagnamento sociale ben orientato e non a pioggia. E soprattutto: se veramente i soldi del fondo devono andare alle regioni più povere che dipendono da attività fossili, allora bisogna che ci sia un impegno preciso e piani credibili e controllabili su zero emissioni entro il 2040 o 2050 da parte dei paesi che ne approfitteranno. Si profila anche su questo tema una dura battaglia tra gli stati membri per le risorse in campo e i criteri per ottenerli.

I prossimi mesi saranno perciò cruciali per valutare la volontà e la capacita non solo della Commissione VDL ma di tutte le istituzioni europee di realizzare un vero European Green deal. Solo una costante attenzione dei media, dell’opinione pubblica, di associazioni, università ed attori economici “verdi” potrà garantire che questo impressionante programma di cambiamento non si perda nei lunghi corridoi dei palazzi di Bruxelles o nei rivoli incontrollabili delle amministrazioni nazionali.