CETA è stato firmato: a cosa è servita la battaglia della Vallonia

Articolo di Monica Frassoni su Huffington Post –

E così ieri, domenica 30 ottobre, vigilia di Halloween, l’affascinante primo ministro canadese Justin Trudeau ha firmato a Bruxelles con Jean Claude Juncker e Donald Tusk il trattato commerciale tra il Canada e l’Unione europea (CETA) dopo un paio di settimane durante le quali il Davide della Vallonia, si era rifiutato di dare l’autorizzazione al governo belga di firmare il trattato; il grande scandalo globale è stato accolto come una vera benedizione dal presidente della Vallonia, Paul Magnette, e sindaco di Charleroi, (dichiarata qualche tempo fa la città più brutta d’Europa), contentissimo di avere dato con l’opposizione a multinazionali e globalizzatori vari una botta di “sinistra” al partito comunista francofono, in forte ascesa nei sondaggi, e un colpo di “glamour” ai rivali delle Fiandre, da anni più ricchi, più belli, più efficienti.

Sono proprio i fiamminghi che sono all’origine di riforme istituzionali che hanno mano mano svuotato i poteri del governo centrale anche in settori come il commercio, che sono per definizione di interesse nazionale, e anzi sovranazionale, tanto che dalla creazione della CE la competenza di negoziare accordi con i paesi terzi è europea.

La resistenza vallona era tutto fuorché inaspettata, dato che dal 2014 il parlamento ne discuteva e da aprile si sapeva che l’orientamento era decisamente negativo; opposizione resa ancora più decisa dopo l’inizio nel 2014 dei negoziati di un trattato “fratello” (se non gemello) con gli Stati Uniti il TTIP. Che l’aria non fosse particolarmente favorevole al “libero commercio” non era un segreto, tanto che, per ragioni molto simili a quelle richiamate dal governo vallone, nei mesi scorsi il governo francese e tedesco hanno sostanzialmente bloccato i negoziati del Trattato con gli USA e nessuno dei candidati alla Casa Bianca ne ha fatto una priorità, anzi.

Nonostante questo, nessuno si è curato più di tanto della piccola regione belga (che sarà anche piccola, ma ben più popolosa di vari stati membri della UE, da Cipro e Malta ai Baltici…). Così, dopo la partenza in lacrime della ministro canadese del Commercio, i belgi si sono messi a negoziare come matti e hanno trovato a tempo di record ciò per cui vanno giustamente famosi: un compromesso, poi accettato in tutta fretta anche dalla Commissione europea. La valutazione del compromesso in questione si vede chiaramente dagli # che ogni partito ha messo in rete dopo l’accordo, come sempre raggiunto dopo negoziati notturni: i socialisti #newCETA, i liberali #ceta, i verdi #memeceta (lo stesso CETA) o anche #stopceta.

La prima cosa da dire è che il Trattato CETA non cambia di una virgola. Sono introdotti vari protocolli interpretativi e clausole di salvaguardia, che hanno ovviamente un valore giuridico minore del trattato stesso e che introducono quella che Ecolo, il partito verde belga, allineato come tutti i verdi su una opposizione dura non al commercio transatlantico, ma a questi accordi di commercio che è tutto fuorché libero, ha definito una “marmellata di testi” di dubbio valore reale.

In seguito, il dibattito intorno al contenuto del trattato dopo il rifiuto della Vallonia di autorizzare il governo belga a firmare l’accordo, è stato troppo breve e precipitoso per favorire una modifica reale dei punti problematici che sono rimasti gli stessi. È vero che abbiamo di fronte ancora tutto il processo di ratifica parlamentare nazionale, ma il punto è che il dibattito si è concentrato più che sui contenuti sul fatto che un parlamento regionale possa bloccare tutto il resto dell’UE.

Ma cosa è stato ottenuto dalla Vallonia? Sono davvero cambiate le cose sui punti più controversi dell’accordo? La risposta è che la Vallonia ha ottenuto poco, ma la sua azione è stata molto importante. E che no, non è cambiato praticamente nulla.

Il risultato dichiarato più importante è che il Belgio ricorrerà alla corte di giustizia europea per verificare la compatibilità della clausola ICS (Investment Court System) cioè l’arbitraggio sugli investimenti che possono essere danneggiati da norme pubbliche (ma non del resto del trattato) con il diritto comunitario. D’altronde, il tema dell’arbitraggio sui conflitti fra investitori e stati da parte di panels sostanzialmente privati e separati dalla giurisdizione ordinaria è sempre stato il tema più controverso di questo tipo di accordi, anche perché questa possibilità non è aperta a investitori nazionali o cittadini ordinari.

E infatti, prima della ribellione vallona, dopo mesi di pressione, nel febbraio del 2016, il cosiddetto ISDN è stato sostituito da una corte pubblica e permanente, ma la sua trasformazione in una vera corte internazionale non è né chiara né ancora calendarizzata, anche dopo il negoziato con la Vallonia. Comunque, la possibilità di attaccare direttamente gli stati per la protezione di interessi privati e investimenti stranieri fra paesi tendenzialmente democratici resta.

Sul tema delicato dell’agricoltura, siamo ancora nel campo della concorrenza sui prezzi e non sulla qualità. Vedendo gli effetti devastanti che persistono in Europa e notando che il grande sviluppo di pratiche agricole sostenibili non è certo merito della PAC, non possiamo che concludere che la pressione sui produttori non farà che aumentare; non è garantita inoltre nessuna garanzia sulla permanenza di standard di sicurezza alimentare anche a causa di una reale differenza di pratiche agricole tra l’UE e il Canada.

La sbandierata protezione delle indicazioni geografiche è davvero poca cosa: dei 1308 alimenti, 2883 vini e 332 liquori protetti nella UE restano solo…173! Certo, c’è il parmigiano. Ma davvero pochissimi altri. Se alcune soglie di importazione saranno superate in modo “imprevisto” si potrà attivare una clausola di salvaguardia che però non potrà intervenire sull’apertura generale del mercato. Inoltre, il Canada ha espressamente escluso il riconoscimento del principio di precauzione, altro punto cardine delle norme comunitarie.

Su clima ed energia, l’uscita dai fossili non sarà facilitata da CETA, anzi, dato che mancano completamente disposizioni che puntano a favorire politiche di cambio radicale del modello energetico, dal disinvestimento, alle rinnovabili all’efficienza energetica.

Insomma, nonostante dichiarazioni e protocolli e nonostante l’energia del governo vallone, è evidente che non è possibile rimediare ai problemi più importanti del Trattato senza riaprire il negoziato. Dicevo all’inizio che nonostante tutto questo la battaglia della Vallonia non è stata inutile. Innanzitutto perché la procedura di ratifica è solo all’inizio. Ma soprattutto perché è emerso chiaramente che il potere di ratifica parlamentare può essere interpretato in modo ben diverso a seconda della mobilitazione pubblica, dell’attenzione dei media e la responsabilità degli eletti.

È più che evidente che in Italia per esempio, la narrazione acritica e generica del governo che con il ministro Calenda raggiunge livelli di ideologia liberoscambista francamente eccessivi, anche per me che sono di cultura liberale, è stata facilmente dominante e ha cancellato la pur generosa mobilitazione di alcune associazioni; scontratasi peraltro con il disinteresse di forze politiche come i 5Stelle che appaiono purtroppo in grado di mobilitarsi solo sugli stipendi dei deputati o contro Renzi.

La partita democratica, quando è seria, può funzionare, come dimostra almeno in parte il fatto che il trattato con gli USA sia ormai moribondo! Ci sono però due importanti rischi da evitare. Il primo è quello di confondere la battaglia sul contenuto della politica commerciale europea con la battaglia contro la Commissione o l’Unione Europea in quanto tale: è sbagliato, anche da parte dei sostenitori di questi accordi, di mettere in un unico sacco nazionalisti e populisti anti-global e chi vi si oppone per ragioni di contenuto. Anzi molto spesso fra quei detrattori si trovano attivisti democratici ed europeisti, che dovrebbero essere visti come degli alleati contro i nazionalisti e populisti di tutti i tipi.

Il secondo è quello di spostare la discussione su “democrazia” nazionale versus democrazia europea, mettendo in contrasto due legittimità che devono continuare a esistere, ognuna al suo livello, ma tutte e due costruite con garanzie reali di trasparenza e partecipazione pubblica. Come ho già avuto modo di dire, questo è un trattato misto, che tocca temi di non esclusiva competenza europea.

Inutile quindi lamentarsi del fatto che tutti possano bloccarlo: la verità è che bisogna forse evitare di allargare troppo la portata dei trattati commerciali e comunque renderne più democratica e aperta la discussione e la deliberazione. Queste non sono parole vuote.

In tutto il processo negoziale del CETA e nella prima fase del TTIP, nessuno tranne funzionari nazionali ed europei e rappresentanti di business influenti avevano una chiara idea del mandato negoziale che la Commissione europea aveva ricevuto dai governi nazionali. Nemmeno i parlamentari europei. Figuriamoci quelli nazionali.

Quindi, il futuro della politica commerciale europea e la capacità del sistema decisionale di funzionare o, come ha detto il presidente Tusk in un raro attacco di saggezza, passa attraverso la possibilità di convincere i cittadini europei che chi negozia lo fa nel loro interesse. Cosa che oggi non succede affatto.

Infine, essere contro CETA o TTIP non significa essere contro il commercio o i rapporti transatlantici. Ma non c’è un solo modo di commerciare, cioè aprire i mercati sulla base di chi produce al minor prezzo. Ci sono moltissimi temi sui quali cooperare con paesi amici come il Canada e gli USA, in modo da rafforzare e non diminuire standard di sicurezza e di protezione dell’ambiente e dei cittadini. Non è vero, perciò, che la politica commerciale europea è morta. Sta solo imboccando una strada sbagliata dalla quale si può ancora tornare.

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