Ma l’Europa deve restare leader della decarbonizzazione

Articolo di Francesco Ferrante su La Stampa.it Il rapporto dell’Ippc reso noto in questi giorni, con la conferma della drammatica urgenza di scelte politiche radicali ed efficaci per affrontare i cambiamenti climatici in atto, ha suscitato ovviamente molti commenti. Tralasciando i pochi “negazionisti”, che ormai sono come quel giapponese che decenni dopo il 1945 continuava a pensare che la seconda guerra mondiale non fosse mai finita, il dibattito verte piuttosto su quali iniziative prendere e se le stesse siano “compatibili” dal punto di vista economico. Da questo punto di vista, molto interessante è l’articolo di Corrado Clini, già Ministro dell’Ambiente e tutt’ora Direttore generale di quel ministero, pubblicato su Tuttogreen.  Va detto subito che le proposte concrete dell’ex Ministro sono più che condivisibili. Clini chiede che l’Unione Europea assuma da subito politiche condivise e armonizzate tra gli Stati membri per modificare lo scenario di riferimento in una direzione «efficiente e decarbonizzata», misure urgenti in materia di fiscalità energetica per favorire tecnologie e combustibili a basso contenuto di carbonio, la sacrosanta esenzione dai vincoli del fiscal compact per gli investimenti destinati a infrastrutture e tecnologie per la riduzione delle emissioni, e last but not least la riduzione degli anacronistici e dannosi sussidi ai combustibili fossili.  Ma ciò che invece non si può condividere, è l’assunto da cui parte Clini. La tesi, peraltro non nuova, è che da una parte l’Europa– di fonte all’avanzata, anche in termini di contributo alle emissioni di gas di serra, di paesi emergenti come innanzitutto la Cina – ormai è responsabile per quote assai ridotte delle emissioni totali e che quindi sforzi unilaterali sarebbero pressoché irrilevanti, e soprattutto troppo costosi. Insomma per Clini non varrebbe la pena, e soprattutto non ce lo potremmo permettere, insistere nel fissare obiettivi vincolanti, come invece si ostinerebbe a voler fare l’Europa.  La tesi, a nostro avviso è sbagliata due volte. Innanzitutto sulla “irrilevanza”. Se l’Europa non avesse applicato – sostanzialmente unilateralmente – il Protocollo di Kyoto, oggi saremmo in una situazione peggiore, non certo con meno gas di serra in atmosfera. E il fatto che tale concentrazione globale sia continuata aumentare non è certo un buon motivo per rinunciare a ribadire politiche di riduzione in questa parte del mondo, che dalla rivoluzione industriale in poi ha goduto dei maggiori benefici dovuti allo sfruttamento dei fossili, e che oggi ne sta facendo pagare le conseguenze, paradossalmente, innanzitutto a quei paesi e a quei popoli che sono stati tagliati fuori dalla crescita (si pensi a profughi ambientali per l’avanzata della desertificazione nell’Africa sub-sahariana solo per fare un esempio).   Ma non è solo un motivo etico a consigliare di autoimporci limiti restrittivi sulle emissioni (almeno quella riduzione 40% di cui si dibatte per il target al 2030, accompagnata aggiungerei da target ambiziosi su rinnovabili ed efficienza), è proprio l’economia a dirci che “conviene”. In positivo perché , in questo mondo globalizzato, la vecchia Europa ha qualche speranza di poter competere solo puntando su know-how e settori dove l’innovazione tecnologica possa consentirci ancora qualche vantaggio: è la green economy è proprio questo. Ma anche perché, contrariamente alla tesi principale di Clini, non è vero che le politiche per combattere i cambiamenti climatici pesino negativamente sul sistema economico e industriale europeo.   Il recente rapporto “Staying with the leaders. Europe’s path to a successful low-carbon economy”, realizzato dal prestigioso istituto inglese Climate strategies con il contributo tra gli altri della London School of economics e del German Institute for Economic Research di Berlino, dimostra infatti come l’Europa abbia anzi bisogno di rimanere leader in questo campo proprio per questioni di sicurezza nell’approvvigionamento energetico, per attrarre investimenti a medio-lungo termine e soprattutto per creare nuove opportunità di lavoro. Quello studio, non sospettabile di “ideologie ambientaliste” sostiene che sarebbe proprio la mancanza di politiche efficaci contro i cambiamenti climatici che esporrebbe l’Europa ai rischi connessi a un mercato dei fossili sempre più volatile e che un’economia low carbon porterebbe invece molti benefici. Peraltro è lo stesso indice di competitività elaborato dal World Economic Forum che assegna un peso di oltre il 15% alla capacità innovativa di un sistema economico e solo l’1% per cento al costo dell’elettricità che sarebbe eventualmente influenzato dalle politiche di riduzione delle emissioni di gas di serra.  Insomma le proposte di Clini, richiamate all’inizio, non andrebbero poste in alternativa al raggiungimento a livello europeo di un accordo vincolante per tutti i Paesi membri su riduzione di emissioni, aumento del contributo delle fonti rinnovabili, e miglioramento dell’efficienza, ma piuttosto in combinazione con quei targets. E’ questa la sfida dei prossimi mesi, nei quali il nostro Governo, se ne sarà in grado, potrà e dovrebbe svolgere un ruolo importante durante il semestre di presidenza italiana.  * Fondatore Green Italia, Vicepresidente Kyoto Club, Vicepresidente Fondazione Integra/Azione, Direttivo Legambiente  @franferrante  www.francescoferrante.it   TI POTREBBERO INTERESSARE ANCHE:AFPBanca Mondiale: entro 10 anni lotte per acqua e ciboAFPRischio crisi finanziaria da “bolla carbonio”Energia: Conti: Per decarbonizzazione rinnovabili non bastano(4WNet)Casa ad Alta Efficienza. 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